“L’amor nostro era puro/ come neve suoi monti/ e bianco come la luna/ che appare tra le nuvole/ Mi van dicendo/ che i tuoi pensieri/ son doppi. Ed ecco/ son venuta per rompere/ Oggi berremo/ una coppa di vino/ doman ci lasceremo/ lungo il Canale/ Così, camminando/ lungo il Canale/ fin dove biforca/ Levante, Ponente/ Ohimè, ohimè/ e ancora ohimè!/ Così pianger deve/ una fanciulla/ quando è sposata/ se non ha trovato/ uno dal cuor sincero/ uno che non la lasci/ finché ha bianchi i capelli.”
Cho Wen-Kiun, “Canzone delle teste bianche”
Il vecchio Tsundoku camminò dalla sua casa in riva al lago sino alla dimora del poeta Ssuma Siang-yu seguendo la stessa identica strada acciottolata che percorreva ogni giorno, pioggia o sole, da tempo immemore – il padre del padre di Ssuma, mentre era ancora vivo, ricordava il vecchio Tsundoku quando già giovane e virgulto correva come una lepre sino in cima alla collina, si affacciava al cancello e chiedeva il permesso di entrare (era stato proprio il padre del padre di Ssuma ad assumerlo come giardiniere, e da generazioni era rimasto fedele alla famiglia e per sempre chirurgico nel suo lavoro).
Il vecchio Tsundoku, dentro il suo cuore rugoso come il suo volto, aveva perciò tante storie da raccontare – tante favole –, e tante ne aveva sul suo giardino, perché lì aveva visto nascere i fiori più belli di tutto il villaggio, aveva atteso la crescita dei cespugli più rigogliosi e addirittura aveva piantato personalmente i ciliegi che in quei giorni vantavano l’onore di essere i più antichi della regione; ed erano storie così belle e così antiche – e Tsundoku era così vecchio e così eterno – che la maggior parte degli abitanti del villaggio era nata che lui era già bambino, e tanti altri vecchi come lui non ricordavano essere mai esistito un tempo in cui Tsundoku non fosse in qualche modo presente – sembrava immortale come i grandi draghi venuti dalle montagne nelle epoche passate, immortale come i suoi ciliegi o le sue storie impilate sopra le sue labbra come tanti sassolini in un giardino.
Il giardino di Ssuma, ovviamente, era il più bello di tutti – neanche a dubitarne – grazie proprio alle maniacali cure del vecchio Tsundoku, che ogni mattina raggiungeva il suo luogo di lavoro, si affacciava al cancello come nei suoi quindici anni da adolescente e chiedeva, sempre con la stessa inflessione di voce, se poteva entrare; e Ssuma diceva ogni volta:
– Sì, entra, Tsundoku.
e Tsundoku entrava, e la prima cosa che faceva era accarezzare i suoi ciliegi perché diceva che solo così, con un piccolo ed insignificante gesto d’amore, potevano crescere in pace per tanti e tanti altri anni ancora – nelle sere di primavera, quando raccontava le storie e le favole ai giovani del villaggio, diceva che funzionava allo stesso modo anche per le persone, e cioè diceva che in amore basta solo una carezza silenziosa o una parola gentile per far crescere il sentimento piano e forte come un ciliegio secolare.
La seconda cosa che faceva Tsundoku, nel lento e minuzioso filo dei suoi gesti, era in realtà due cose, e cioè dar da mangiare agli uccelli della voliera e controllare che la porta della stessa fosse chiusa – la voliera era un regalo della facoltosa famiglia della madre di Ssuma, che l’aveva riempita con gli esemplari più maestosi ed esotici che poteva permettersi e che l’aveva vista svuotarsi di essi uno a uno, portati via dalle malattie e dal desiderio di fuggire per trovare un lido più sereno dove morire. Quella mattina, quando Tsundoku controllò la porta della gabbia, all’interno c’era solo una bellissima e piccola rondine grande come un pugno che cinguettava saltando da un trespolo all’altro rendendo le giornate di Tsundoku un po’ più felici; il vecchio le diede da mangiare come sempre e poi – come un dio che aveva assolto il suo imperioso compito di creare mondi e galassie – si adagiò quale balena vecchia e morente su una panchina che era la sua spiaggia, all’ombra di un pergolato che era tutto il suo cielo.
Tsundoku riposava a lungo ogni giorno prima di recarsi nel retro della casa a potare le rose perché la sua vecchiaia gli impediva di evitare questa sosta; ormai tutti quanti sapevano che faceva parte del suo irrinunciabile ordine giornaliero di lavoro come i ciliegi e la voliera, e proprio perché tutti lo sapevano Ssuma comparve alle sue spalle e si sedette con lui.
Il silenzio era sovrumano e inquietante, anche il vento sembrava essersi fermato – quella leggera brezza marina che soffia ogni tanto anche se il mare è lontano –, e il mondo intero era in attesa di ascoltare il dialogo fra quei due uomini così distanti negli anni ma vicinissimi nella sensibilità più intima.
– Ho scritto una nuova poesia. Vuoi sentirla?
Il vecchio, con la schiena piegata all’indietro e un sorriso ebete sul volto che poteva essere scambiato per una ruga, attese un attimo prima di rispondere – come per gustarsi la domanda, sminuzzandola fra i denti cariati e deglutirla –, poi disse:
– Mi piacerebbe. Quando avrò finito con il giardino, molto volentieri.
Poi si alzò e se ne andò, lasciando Ssuma seduto sulla panchina di pietra a contemplare i ciliegi.
Il poeta restò seduto tutta la mattina sotto il pergolato a farsi cullare dall’ombra e dalla leggera brezza che aveva ripreso a soffiare; gustò e rigustò a fondo l’odore delle rose e dei glicini meravigliosi e poetici come lui e ripensò a qualche sera prima quando l’intero villaggio lo aveva applaudito per la sua ultima poesia e tutte le personalità più in luce della regione lo avevano accolto nei loro banchetti celebrandolo come grande poeta – Ssuma dapprima era arrossito, poi aveva sorriso ed infine aveva alzato le braccia in segno di resa vittoriosa accettando la fama e il successo con spiccato egoismo perché ormai era il poeta, e nessuno poteva più superarlo in sensibilità e comprensione dei dettagli della vita.
Mentre pensava a tutto questo sorrise e si beò di se stesso, ma poi il suo sguardo inciampò sulla voliera, sui suoi intarsi voluttuosi e sulla piccola rondine: fu lì che gli crollò addosso il mondo, perché quella rondine – unico uccello sopravvissuto allo scorrere degli anni – era un regalo di Cho Wen-Kiun – era un regalo della donna che lo amava con tutta se stessa e che lo amava a tal punto da regalargli una rondine dicendogli:
– Questa rondine è il simbolo del mio amore e ogni volta che la guarderai ti ricorderai di me, e di quanto io t’ami.
Ssuma distolse lo sguardò dal volatile prima che le macerie del mondo distrutto gli crollassero addosso, e mentre i detriti della sua vita travolgevano altro concluse che ormai non aveva più tempo per Cho e che siccome ora poteva avere tutte le donne del villaggio non aveva neppure più motivo di sposarla.
– Devo trovare un modo molto poetico e poco doloroso per dirle addio.
Quella sera, seduti attorno alla bottiglia del sakè, Ssuma e Cho consumarono una frugale cena e si prepararono per andare a dormire; raggiunsero la stanza da letto ciabattando assonnati e tenendosi per mano come i bambini – un gesto consolidato forse più delle maniacali operazioni di Tsundoku –, si spogliarono lentamente ognuno dalla propria parte del letto con una grazia e una delicatezza che solo i poeti e gli amanti riservano alle loro opere – levigando le parole e le superfici della pelle alla ricerca di dettagli minuscoli, meravigliosi e unici – e si stesero nel letto guardando il soffitto ognuno immerso nei propri pensieri. Poi, improvvisamente, Ssuma si girò verso Cho e l’abbracciò stretta e in silenzio; piano piano, come due adolescenti che scoprono per la prima volta le vie del piacere, si compenetrarono come due rose che crescono nello stesso giardino, avvolgendosi e pungendosi come pizzicati da api e zanzare; infine, esausti e sudati, si addormentarono felici.
Il mattino successivo, mentre facevano colazione, Ssuma guardò negli occhi Cho e le disse:
– Addio, amore mio, perché non posso più sposarti né tantomeno stare insieme te.
Il poeta se ne andò e passeggiò nel giardino tutto il giorno certo del fatto che non avrebbe ma più rivisto Cho Wen-Kiun; Tsundoku, intanto, potava i ciliegi.
Cho Wen-Kiun rimase seduta al tavolo della colazione tutta la mattina; passò il tempo tenendosi stretta la pancia dove una parte di Ssuma ancora albergava – con gli occhi chiusi e le lacrime che le rigavano il volto –, senza rendersi conto che il tempo intanto scorreva veloce e che la sua vita si consumava come i rami dei ciliegi che cadevano dalle cesoie di Tsundoku.
Quando la sera clementemente indorò il giardino, Ssuma rientrò in casa sicuro che la donna se ne fosse andata, fuggita, scappata via per non rivederlo più perché troppo piena di odio – forse aveva sbagliato ed era stato crudele, non da poeta, abbandonarla così dopo una notte d’amore, ma dopotutto era stato anche ineccepibilmente da persona ormai famosa averle reso più piacevole del solito l’ultima sera per scaricarla come un carro vecchio il mattino dopo. Sorrise, Ssuma, immaginando già i seni nudi e bianchi di un’altra donna bellissima.
Quando rientrò in camera da letto – il letto che già immaginava troppo vuoto – notò Cho seduta sul bordo con un foglio in mano zuppo di lacrime e con gli occhi chiusi perché non voleva vedere il mondo che l’aveva ingannata, tradita e delusa – perché non voleva vedere il volto dell’uomo che non la voleva e che lei, ostinatamente, continuava ad amare.
Ssuma le si mise davanti, quasi burbero, e le chiese cosa volesse.
– Dirti addio, amore mio, – disse Cho – perché stamattina non me ne hai lasciato il tempo. Questa è una poesia che ho scritto pensando a te. A noi. Tieni.
Cho si alzò e se ne andò, certa che quella era l’ultima volta in cui i suoi occhi avrebbero incrociato il bellissimo sguardo di Ssuma.
La notte fu eterna come tutte le notti d’amore di Ssuma e Cho, ma infinitamente più terribile, perché Cho la passò a piangere e il poeta la trascorse da solo e in compagnia di una poesia – e fu molto strano perché era lui che conosceva le parole, era lui che sapeva scrivere ed era lui il poeta famoso e bravo, non Cho (Cho era solo una donna disperata e innamorata che però aveva scritto una poesia meravigliosa).
Fu leggendo il foglio umido che Ssuma capì irreprensibilmente che sono la disperazione e l’amore a fare i poeti e che lui, tronfio e colmo di fama e fortuna, lo aveva dimenticato – se non fosse stato per quella bellissima poesia sarebbe morto ancor prima di nascere, sarebbe crollato sotto gli insulti e le malelingue della gente, glorioso e caduto nel fango come tutti i poeti che si trasformano in idoli –, ma Cho glielo aveva fatto ricordare, e più di tutto aveva compiuto un gesto incredibile che certi uomini di lettere così sensibili come Ssuma credono impossibile: la commozione – quelle parole, infatti, così ben allineate sul foglio lacrimante, avevano mosso il cuore dell’uomo facendogli provare un dolore estraneo alla sua penna, ricordandogli che anche i poeti sono umani, che le parole non sono una proprietà privata e che anche chi regala emozioni, a volte, ha bisogno di essere emozionato.
Il mattino successivo Ssuma si recò nella casa della famiglia di Cho e trovò la sua amata nel giardino sul retro; Cho non lo sentì arrivare, ma quando un’ombra le oscurò il sole che appariva così maleducato in quel giorno di dolore alzò lo sguardo e vide un foglio ondeggiare nella brezza.
– Ho sbagliato – disse Ssuma – Hai scritto una poesia meravigliosa come io non potrò scrivere mai. Voglio sposarti entro stasera.
Cho guardò a lungo negli occhi di Ssuma e immaginò di poter rifiutare quella proposta, dirgli che ormai era troppo tardi e che aveva scritto quella poesia solo per dirgli addio – addio per sempre e a mai più –, ma era anche vero che lei lo amava e senza confessarselo era forse proprio convincerlo che doveva restare l’intento ultimo della sua poesia – e, come solo nelle poesie a volte succede (perché innegabilmente e nonostante tutto figlie della fantasia), era accaduto davvero.
Cho sorrise, prese la mano di Ssuma e – come due bambini dimentichi del futile litigio – si allontanò con lui verso il matrimonio.
Il mattino seguente Tsundoku entrò nel giardino come suo solito, come suo solito accarezzò i ciliegi e come suo solito, con passo infermo e claudicante, si avvicinò alla voliera; come suo solito l’aprì, nutrì la rondine e come suo solito fece per chiudere la gabbia, ma all’ultimo – a metà strada – si fermò; poi, come se il gesto che stava per compiere fosse parte del suo secolare ordine delle cose – come se fosse l’ennesimo gesto ripetuto giorno dopo giorno –, sorrise e aprì nuovamente la gabbia, lasciandola aperta mentre si riposava all’ombra del portico; guardò la voliera finché la rondine non si accorse dell’opportunità e infine si alzò, chiuse la voliera ormai vuota e andò a potare le rose.
La rondine prese il cielo e raggiunse le nuvole, volò alta e alta e ancora più in alto e volò via verso l’eterno spazio sconfinato; volò per sempre sopra le bianche teste di Cho e Ssuma.
Alessandro Mambelli
Classe 1997, Neolaureato Lettere Moderne a Bologna.
La poetessa Cho Wen-Kiun visse nel I secolo a.c. e questa storia è per
lei.