Grazie al cielo hanno inventato i sedili riscaldati
Vik, 16 dicembre 2016. Sulla strada del ritorno, al quarto e penultimo giorno di viaggio, potevo già iniziare a tirare le somme di questa avventura. Alla guida di una Kuga 4×4 presa a noleggio, per tutti e quattro i giorni passati sull’isola, fari e tergicristalli erano perennemente attaccati. La pioggia fine ma incessante non dava un attimo di tregua, motivo per cui vedere l’aurora boreale era l’unica voce ancora non spuntata che avrebbe completato la mia lista di cose da vedere in programma.
Più o meno dovevano essere le 15.30 del pomeriggio, orario in cui si inizia a percepire il calare della luce, segno che la giornata stava volgendo al termine. Sì esatto, i tempi hanno tutto un altro aspetto: con la sveglia puntata alle 8.00 e in strada per le 9.00, dicembre significa non vedere un filo di luce all’orizzonte almeno fino alle 10.30 del mattino. Ogni luogo doveva essere raggiunto entro tarda mattinata, le prime e le ultime ore della giornata, avvolte nel buio più totale, erano lo spazio dedicato agli spostamenti, ore di macchina in mezzo al nulla che in quattro giorni mi permisero di percorrere tutta la costa sud dell’Islanda dal lato est, fino all’altro capo, il lato ovest.
Con quattro o cinque ore al giorno di luce a disposizione per gironzolare da un angolo all’altro di cascate, ghiacciai, spiagge e geyser, con la fotocamera in mano sempre accesa, intorno alle 16.00 arrivava il momento di risalire in macchina, ovviamente fradicia dalla testa ai piedi, piena di freddo, con l’entusiasmo e l’emozione alle stelle. Grata per i sedili riscaldati, spogliata di tutti gli strati inzuppati che avevano preservato un minimo di asciutto sul mio corpo, arrivava il momento di cantare (perché la radio non prendeva un accidente di segnale) e di rimettersi in strada con i piedi scalzi e la luce che tornava a sparire.
Quel pomeriggio del 16 dicembre, dopo poco più di 2 ore di auto, non mi restava altro da fare che raggiungere l’ostello, dove avrei passato l’ultima notte sull’isola, e fare con calma l’indomani le due ore e mezza restanti per raggiungere l’aeroporto di Reykjavík.
Il panorama si divideva alla mia destra in colline ricoperte da folti manti di erba secca, mentre sulla sinistra costeggiavo per infiniti chilometri le spiagge della costa, spoglie e nere come il carbone. Mi ero da poco lasciata alle spalle la cittadina di Vik, le quattro luci dei lampioni delle sue strade si potevano ancora vedere come puntini in lontananza riflessi negli specchietti retrovisori dell’auto. Mi venne in mente che non avrei dovuto essere molto lontana dall’unico punto di interesse che avevo deliberatamente scelto di non includere nell’itinerario che avevo fatto più o meno un mese prima.

Chiunque visiti l’Islanda sa che ci sono, da qualche parte su una spiaggia, i resti di un aereo militare statunitense, lasciato lì a seguito di un atterraggio di emergenza nel 1973 dal quale l’intero equipaggio sopravvisse, ma le cui cause sono tutt’ora sconosciute. Personalmente non riuscivo nemmeno a soffermarmi sulle foto in una ricerca di google, figurarsi anche solo pensare di andare a vederlo sul posto. Amo viaggiare in aereo più di qualsiasi altro mezzo, quelle immagini di una carcassa fin troppo intatta, mi mettevano a disagio.
La sensazione di esserne vicina spingeva l’istinto ad aguzzare un po’ la vista alla ricerca di segnali o cartelli che avrebbero confermato i miei sospetti. Dopotutto vederlo dalla strada sembrava un sufficiente compromesso tra curiosità e paura.
Ora, immaginiamo di avere ormai l’abitudine di incrociare al massimo una decina di macchine al giorno: avvicinarsi a un improvvisato parcheggio sulla sinistra della strada, può creare un più che lecito sospetto. L’area è segnata solo da qualche paletto di legno e nastro giallo che ne delimitano uno strano perimetro, ma era pieno di auto da sembrare il posteggio di un supermercato. Rallentai senza fermarmi e scrutai la zona.
Non era presente nessuna indicazione, avrebbe potuto trattarsi di qualunque altra cosa, anche dalla strada non si vedeva nient’altro che sabbia fino all’orizzonte. Proseguii, non avevo comunque intenzione di fermarmi, anche se ci avevo pensato. Mezz’ora e sarà completamente buio, e quell’aereo distrutto non lo voglio vedere, pensai alla fine. Passarono trenta secondi, continuai a volgere lo sguardo agli specchietti, entrambe le mani sul volante e la schiena adesso dritta non più appoggiata allo schienale. Sembrava che dovesse ricominciare a piovere da un momento all’altro, chi me lo faceva fare di rimettermi ai piedi calzette e scarpe fradici e freddi. Sessanta secondi, ed eccola lì, la stretta allo stomaco che conosco ormai fin troppo bene. Non mente mai, quando dicono di fidarsi dell’istinto per me si riferiscono proprio a quella torsione delle budella e non ho mai dovuto imparare a fidarmene a seguito di esperienze o rimorsi, le ho sempre ceduto, subito, da sempre, i conti si fanno dopo.
Novanta secondi, frenai, girai la macchina e ritornai sui miei passi. Tanto ci volle alla curiosità per prendere il sopravvento. Nella mia testa un unico pensiero:
“Lo sai che se adesso non vai a vedere quel dannato aereo, domani e ogni giorno seguente, sarai solo capace di torturarti all’infinito per non aver preso al volo quest’occasione. E questa esperienza non avrà la stessa importanza.”
M’incamminai su quella che era l’unica opzione, un tracciato sulla sabbia segnato da un paio di paletti ogni cinquanta metri circa. Ma continuavo a non vedere niente in lontananza se non le numerose persone che incrociavo e che giustamente a quell’ora camminavano nella direzione contraria.
Quando la gente di ritorno alle proprie auto si ridusse a qualche coppia ogni tanto, decidisi che era il momento di chiarire qualche punto. Attirai l’attenzione di un turista e dalla sua faccia cordiale e sorridente scoprii che A) sì, quello era proprio il posto dove si trovano i resti dell’aereo, e che B) mancavano più o meno quattro chilometri a piedi per vederlo.
Mi girai, vidi il parcheggio e la mia auto, guardai l’orologio, segnava le 16.47 ormai dopo poco sarebbe stato buio pesto; alzai gli occhi al cielo: “sicuro torna a piovere da un momento all’altro. Non è che ho molta scelta, io nemmeno volevo vederlo questo dannato aereo.”
Quattro chilometri, più o meno quaranta minuti di camminata; iniziai a correre, forse avrei potuto farcela in mezz’ora.
Corsi con degli scarponi che sembravano zavorre, fradici ai piedi, affondano ad ogni passo nella sabbia mista a rocce, la fotocamera già attaccata al treppiede e ben salda in una mano, il cellulare come torcia tenuto in avanti nell’altra. Scollinai una duna seguendo il curvarsi della traccia, e finalmente lo vidi: una silhouette scura di metallo, che ancora rifletteva l’ultima luce della giornata. Eravamo io, l’aereo e altre tre persone, esploratori pazienti che avevano sicuramente atteso il momento in cui la maggior parte della gente se ne fosse andata, per potersi dedicare appieno alla carcassa, senza intrusioni.
In quelle condizioni, è molto più facile prestare attenzione e rispetto sia per il proprio ma anche per l’altrui lavoro. Si innesca una specie di codice morale reciproco senza dover parlare, si scatta un po’ per turno. È molto probabile infatti, che gli unici disposti a non lasciarsi condizionare dall’orario, dal meteo e dalle scalette di impegni programmati al secondo, siano fotografi professionisti, o seriamente motivati, che non baratterebbero mai una foto ben fatta con una cena servita alle 19.00 precise. Mi presi un paio di minuti per osservare la scena, e i movimenti degli altri ospiti, poi, mi unii alle danze.
Il metallo tutto sommato si può considerare ancora in buone condizioni, e la struttura ancora solida. Si sono persi col tempo i colori, ma con un’occhiata più attenta si può ancora intravedere la scritta “United States” sul dorso dell’aereo appena sopra la fila di finestrini. Si può camminare su quel che resta dell’ala e dei motori o arrampicarsi fino a salire in piedi sul mezzo. Feci il giro e entrai passando per l’apertura che doveva ospitare il portellone di accesso dell’equipaggio. Ormai eravamo immersi nel buio più totale, le flebili luci delle torce dei nostri telefoni si agitavano tutto intorno, illuminando abbastanza da vedere dove mettevamo i piedi. In fondo non è un aereo tanto grande come quelli di linea.

Per un secondo tutto l’interno si illuminò a giorno allo scatto di uno dei flash degli altri fotografi, che ora erano rimasti in due oltre me, probabilmente una coppia. Contai più o meno una ventina di posti, ma mancavano i sedili. Si dice che un contadino del luogo anni fa abbia portato via delle parti del relitto per venderle a collezionisti. Sul pavimento scoperto si vedono solo le griglie di lamiera forate da bulloni che adesso non tengono più niente. È davvero solo un guscio vuoto, lasciato in mezzo al nulla, come una conchiglia arrivata dal mare, persa nella sabbia, grigia, rotta, bucherellata.
Forse vi sarete chiesti dove sia finita la paura, l’ansia che nasceva da quella vista che tanto ha influenzato le dinamiche dell’inizio di questo racconto. Ebbene me lo ero chiesta anche io e semplicemente non c’era più, sparita; non dico superata, sembrava invece non appartenere più alla situazione, non avere un posto, tanto si era fatto spazio il fascino. Sembra che le situazioni, vissute diversamente nella realtà, invece che solo immaginate nella propria testa, offrano molte più emozioni, sorprese, e dettagli a cui prestare la più fine attenzione, da non avere nemmeno il tempo di dedicare dello spazio alla paura, a meno che questa non risulti reale.
Uscii dall’aereo e continuai il giro attorno alla carcassa, mi posizionai di fronte a lui. Un punto di vista nuovo che immediatamente scatenò tutto un diverso pacchetto di emozioni. Atterrato sulla coda, con il muso rivolto al cielo, dalla mia posizione l’aereo sembrava voler decollare, aggressivo. Smembrato della punta, la cabina di pilotaggio sembrava affrontare un’operazione a cuore aperto. È l’unica parte dove all’interno vi è rimasto qualcosa.
Il groviglio di cavi elettrici sembrano le vene penzolanti di un organo che non funziona più. E in quel momento percepii che non c’è più una vita in questo rottame, pieno di polvere, resta solo una silenziosa apparenza a testimoniare il passaggio di uomini su una terra lontana da casa. Tutti quei cavi inermi e privi di corrente mi fecero paura. Guardai l’uomo e la donna avviarsi lungo il tracciato che porta al parcheggio. Stavo restando da sola con il guscio. Scattai le ultime foto, controllando di non perdere all’orizzonte il puntino di luce della torcia della coppia. Non sarebbe stato prudente incamminarmi nel buio più totale senza nemmeno la compagnia della luna. Non ci fu nessuna stretta allo stomaco a suggerirmi di restare oltre; soddisfatta m’incamminai verso il parcheggio, era ora di tornare a casa.
Elena Vogrig