Prima parte della short story di Giovanni Cugliari, in cui troviamo ragazzi di scuola, alle prese con un bullo e qualcosa di più…
«Ottimo».
La professoressa Lucetta Annibale mi fissava con un sorriso soddisfatto impresso sulle labbra. Faceva sempre così quando rispondevo alle sue domande. Quindi si arrotolò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.
«E, invece, Cristian sapresti dirmi qual è anno in cui morì Oscar Wilde?».
«1900».
Mi impettii e premetti la mano contro le nocche. Uno scrocchio di ossa si percepì nel silenzio innaturale che regnava nella classe. Sapevo tutto quello che c’era da sapere su Oscar Wilde e volevo che gli altri rosicassero. Mi sarei beccato un bel più alla fine dell’ora che, sommato a tutti quelli già collezionati, mi avrebbe alzato la media. E di molto.
Mi allungai sullo schienale di legno della sedia mentre sentivo gli sguardi dei compagni di classe incollati su di me.
La professoressa Annibale allungò tutto il corpo sul libro di storia della letteratura inglese. Sembrava quasi esserne posseduta. «Wilde era figlio di due personaggi di spicco. Sir William era un celebre oftalmologo irlandese, fondatore di un ospedale a Dublino, mentre la madre era una poetessa irlandese di origini inglesi».
Annuii mentre con lo sguardo mi fermai a osservare le labbra carnose, che scandivano ogni parola.
Pum!
Avvertii un fastidio vicino all’orecchio mentre con la coda dell’occhio vidi ricadere a terra una palla di carta. Lanciai uno sguardo alla professoressa: si era voltata e stava scrivendo alla lavagna. Probabilmente non si era accorta di nulla.
Mi girai indietro, cercando di capire chi fosse stato. Allungai il collo: due file dietro di me, sulla destra, Salvatore Agricolo si sganasciava dalle risate con Mauro Inglese. Si lisciava il ciuffo ingellato con una mano e con l’altra mi faceva il dito medio. Rimasi zitto. Toccava a me subire, a quanto pareva.
Mi voltai verso la professoressa e ripresi a seguire la lezione.
Non potevo farmi impressionare e perdere la concentrazione. Dovevo a tutti costi guadagnarmi quel maledetto più per alzare la media.
Mia madre non avrebbe più fatto la serva per gli altri se avessi fatto carriera. L’avrei fatta stare a casa a riposare, a godersi una serata con le amiche e gli spettacoli in TV. Le avrei pagato una bella vacanza in Toscana tutte le estati da permetterle di abbronzarsi così tanto da far invidia a tutto il paese. Le avrei dato una vita migliore. Quella che si era sempre meritata.
Intervenni altre tre volte guadagnandomi ancora di più l’approvazione della professoressa Annibale ma a interrompermi furono altre tre pallette di carta. Mi sporsi e le raccolsi da terra: in una c’era del moccolo verdognolo. O, almeno, così pareva. Nell’altra, invece, una gomma da masticare. Nell’ultima c’era scritto qualcosa. Aprii la palletta. Nonostante le grinze della carta si leggeva nitidamente:
TI AMMAZZO!
Mi costrinsi a stare zitto, senza oppormi.
Ignorali diceva sempre mia madre.
Prima o poi la smettono.
Mi voltai e, proprio in quel momento, una quarta pallina mi colpì il collo.
«E basta, cazzo!».
Agricolo sbottò a ridere e fece il gesto di tagliarmi la gola con il dito.
«Biga, che cosa succede?». La voce della professoressa Annibale.
Tornai a guardare davanti a me. «Nie… Niente prof».
«Biga, ci tiene ancora alla borsa di studio o devo dedurre che ci sta già ripensando?».
Cornuto e mazziato.
Mi preparavo a rispondere, quando il suono della campanella mi sorprese. La professoressa Annibale mi squadrò a lungo ancora qualche istante. Poi, si voltò e uscì dalla classe.
Scossi la testa, ripensando a quanto accaduto.
Cornuto e mazziato.
Non c’era altro da aggiungere.
In quel momento, tra il lezzo pungente di chiuso e dell’acre del sudore, riconobbi un odore diverso: quello di bruciato. Mi voltai verso Alberto Mosca. Aveva steso due strisce di bianchetto sul banco e gli aveva dato fuoco, forse per scoprire quale delle due s’infiammasse più velocemente.
«Vai! Vai!». Urlava dal fondo della classe, come a incitare le fiamme.
Mi morsi il labbro. Cercavo in tutti i modi di non farmi coinvolgere in quel tipo di cose. Così, noncurante di quanto stesse accadendo, tirai fuori il libro di testo di fisica per ripassare l’ultimo argomento. Non feci nemmeno in tempo ad aprirlo che avvertii una presenza al mio fianco. Agricolo mi guardava con aria arrogante. Le sopracciglia nere aggrottate e il naso grosso come quello di un ippopotamo. Indicò il mio zaino con un cenno della testa. «Dov’è il mio pranzo?».
«Quale pranzo?». Mi sforzai di assumere un tono di voce duro.
Agricolo si sfiorò il mento quadrato con le dita. «Il tuo pranzo. Cioè, il mio pranzo. Dove sta? Con gli occhi guardava la tasca in basso della cartella, dove conservavo con cura il mio panino al prosciutto.
«Quello è il mio pranzo!». Sentii le mie mani tremare. Il respiro mi si accartocciò dentro la gola.
Che cosa stavo facendo?
«Il tuo pranzo è il mio pranzo! È chiaro?». Agricolo incrociò le braccia davanti al petto. I bicipiti gonfi, dove si intravedevano le vene.
«Va bene. Va bene». Abbassai la testa. Non volevo proprio essere picchiato da quell’energumeno. «Avanti, apri!». La voce roca di Agricolo. Adesso mi stava addirittura comandando.
Feci come mi aveva ordinato, aprii la tasca dello zaino e gli porsi la busta che conteneva il panino e una bottiglia d’acqua.
«Tutto qui?». Agricolo scartò la confezione e guardò tra le fette di pane. «Un panino con il prosciutto?».
Mi feci coraggio e sollevai lo sguardo. Aveva gli occhi iniettati di sangue. «Tu vai alla mensa, perché vuoi il mio pranzo?».
Lui fece un sorriso storto. «Be’, mica è colpa mia se non c’hai neanche i soldi per venire alla mensa?». Addentò il panino con un morso e si allontanò.
In quel momento, capii che era meglio restare zitto.
Il sole tagliava gli ostacoli degli alti edifici e i suoi timidi dardi arancioni si riflettevano sulla pensilina gialla dell’autobus. Il sottile strato di ghiaccio sul cemento si stava piano piano sciogliendo. Mentre aspettavo il pullman, tirai fuori dalla borsa il diario e diedi un’occhiata ai compiti che avrei dovuto consegnare per il giorno dopo. Mi proiettai, con la mente, sulle domande che la professoressa Annibale ci avrebbe rivolto per controllare se li avessimo fatti da soli o se avessimo copiato da qualcuno. Il rombo del motore mi riscosse. Il pullman arrivò, sbuffando come una locomotiva. Sollevai lo sguardo e notai che Agricolo mi stava venendo incontro.
«Studi anche qui?».
«Ehm… stavo solo controllando i compiti per domani».
«Dammi un attimo che non me li sono segnati». Agricolo mi strappò l’agenda dalle mani. «Che è ‘sta merda? Un diario più bello non te lo potevi comprare?».
«È un regalo.»
«Di chi? Della tua mammina?». Agricolo buttò il diario per terra e gli diede un calcio, facendolo pattinare sull’asfalto fino al centro della strada. «Adesso prendi il pullman o prendi il diario». Fece un ghigno. «Tic-tac. Tic-tac».
Gettai un’occhiata al diario, poi controllai quanti ragazzi erano ancora in attesa di salire sul pullman prima che partisse.
«Vado io a dire all’autista di aspettarti» intervenne una voce. Era Stefano Bernini. Un tipo misterioso, sempre sulle sue. Il classico tipo di cui non ti aspetteresti mai una mano dato che difficilmente stringe amicizia con qualcuno.
«Grazie».
Corsi a recuperare il diario mentre, con la coda dell’occhio, lo guardavo fare un segno all’autista.
«Oh è arrivato l’eroe!» bofonchiò Agricolo rivolto a Bernini. «Hai con te anche la maschera e il mantello?».
Stefano Bernini gli lanciò uno sguardo ostile.
«Andate, andate. Cagoni del cazzo!». Agricolo ci indirizzò un dito medio, prima di voltarci le spalle.
Mentre recuperavo il diario, ragionai sul fatto che Bernini non mi aveva mai rivolto la parola, prima di ora. A esclusione di quella volta, quando aveva fatto a brandelli gli altri ragazzi ai quattrocento metri. In quella occasione mi aveva chiesto un sorso d’acqua, che poi aveva sputato come se avesse assaggiato qualcosa di schifoso.
Bernini, adesso, era ancora in piedi vicino all’autista. Gli mostrò l’abbonamento e si spostò solo quando misi piede sullo scalino. Feci per ringraziarlo ma si era già seduto, guardava fuori e sorseggiava qualcosa da una fiaschetta di metallo. Mi feci strada tra tutti quelli che erano in piedi, per raggiungere Sara.
«Ehi genietto!» Sara mi scoccò un sorriso con quei denti bianchissimi «Non ti avevo visto, tutto ok?».
Strinsi le spalle. «Ho avuto un po’ di problemi».
«Vuoi parlarmene?»
Scossi la testa.
«Siamo amici, e tra noi non devono esistere segreti…».
Abbassai lo sguardo. Sara aveva ragione: eravamo amici. Anzi, amici del cuore, ma adesso non avevo voglia di parlare di quello. «Piuttosto, da quand’è che prendi il pullman come noi comuni mortali?»
«Mio padre e mia madre sono a New York. Solite cazzate». Sollevai lo sguardo. Lei si sfiorava il viso tondo con le punta delle dita. Aveva gli occhi velati da una ciocca di capelli che, con il sole, sembravano ancora più rossi. «Mi sembra una bella notizia» le dissi.
«Come se me ne fregasse. Insomma, come è andata la giornata oggi?» Sara si mise il telefono in borsa.
Feci un segno di diniego prima di riprendere a parlare. «Lascia perdere. Senti, volevo chiederti una cosa: hai voglia di venire a cena da me stasera? Mia madre cucina un’ottima zuppa di funghi, li ha trovati mio padre ieri mattina, e poi c’è una torta al cioccolato»
«Perché non vieni al Margot?»
«I miei non mi lascerebbero mai venire a una associazione di vampiri».
Sara allargò le braccia. «Be’ digli che sei con me. Sanno che si possono fidare. Tua madre mi ha visto crescere».
«Provo a chiederglielo».
«Va bene» disse, tornando a guardare la strada. «Ci conto!».
Vanni Cugliari nasce il 19 settembre del 1990. Deve il suo nome d’arte, diminutivo di Giovanni, al padre che per richiamarlo alla sua attenzione era solito urlargli: “Vanniiiiiii!”
In realtà il padre lo chiamava spesso anche Nanni, soprattutto quando si rivolgeva a lui con toni più amichevoli.
Dopo aver trascurato gli studi ed essersi diplomato con il minimo dei voti all’ITIS di Racconigi, a causa di una fortissima acne, che lo ammazzava emotivamente, incomincia a lavorare coltivando il sogno di farsi desiderare dalle ragazze nei locali notturni.
Una serie improvvisa di eventi negativi(donne, lavoro, conflitti sociali) lo fanno scivolare in un buco nero, dal quale riuscirà ad emergere, iniziando a leggere e accarezzando l’idea di diventare uno scrittore.
Non perde occasione di ammettere che a salvargli la vita è stato il vecchio Hank, meglio conosciuto come Charles Bukowski.
Le letture del vecchio sporcaccione lo aiutano ad accettare i momenti bui e tristi oltre che a passargli più di uno strumento, come sostiene l’autore, sul mestiere di scrivere.
Non si risparmia quando deve andare contro corrente.
Pochi giorni fa è stato sospeso dall’incarico di Cronista per Sprint e Sport. Lui presume che il motivo sia stato affermare su Facebook, dopo l’ultima partita prima che sospendessero i campionati dei dilettanti, che sperava di aver contratto il Covid per avere una scusa valida per non battere la cronaca dell’ultima partita.