Amici di Sangue – Parte 2 – Short story di Giovanni Cugliari

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Siamo alla seconda parte della short story di Giovanni Cugliari, in un culmine di gelosia e vendetta

Il giorno dopo arrivai in classe con venti minuti di anticipo. Sperai di incontrare Sara per dirle che proprio non ce l’avevo fatta a raggiungerla al Margot. Mi appiattii contro il termosifone e mi strinsi nelle spalle. Le braccia conserte. Volevo avere una buona visuale sulla porta per beccare Bernini. Da quella posizione si dominava tutta l’aula: vidi Agricolo rovistare nella cartella di Moravia detto il “pisciasotto”. In quel momento era andato a farsi un giro da qualche parte. Forse era andato a fare pipì, cosa che faceva molto spesso. Agricolo rovistò ancora nello zaino di Pisciasotto e tirò fuori la Nintendo DS. Se la rigirò nelle mani e se la infilò in tasca. Alzò la testa e si accorse che lo stavo guardando. «Che cazzo c’hai da guardare?». 

Feci segni di no con la testa.

«Chi si fa gli affari suoi campa cent’anni, lo sai, no?».

Moravia Pisciasotto, nonostante questa strana abitudine, era un bravo ragazzo e, per certi versi, ci somigliavamo parecchio. La grossa differenza tra me e lui e che io andavo bene a scuola e lui no. Non avrei permesso ad Agricolo di farla franca. Uscii dalla classe e mi portai al bagno. Ma Moravia non era lì. Così, mi precipitai giù dalle scale. Lo trovai davanti alle macchinette delle merende. Stava mangiando un Kinder Bueno. Anche questo era tipico di Moravia. Cioccolata calda, Fiesta, Galak, e tutto quello che poteva fargli male alla salute, lui se lo cacciava in bocca come fosse stato prescritto dal suo medico di famiglia. Provava una tale soddisfazione a mangiare che quasi ti dispiaceva interromperlo.

«Ti hanno fottuto il Nintendo» gli dissi.

«Chi?».

«Agricolo».

Moravia allargò gli occhi. «E non gli hai detto niente?».

Sollevai le spalle.  «E cosa dovevo dirgli?».

Lui scosse la testa. «Vado, che è meglio!». Si precipitò verso le scale e sparì dalla mia vista. Lo seguii preoccupato che si cacciasse nei guai. Seguii le voci e li trovai nel bagno.

«Perché te la prendi sempre con me?». si lamentò Moravia. Nell’aria si percepiva puzza di urina.

Agricolo sollevò appena il labbro in una smorfia indecifrabile. «Non accettiamo compagne mestruate, oggi!»

«Ridammelo!».

«Che cosa?». Agricolo ostentò un’espressione innocente. 

«La Nintendo».

Avanzai di qualche passo.

«E che sarebbe?» Agricolo aveva ancora quell’espressione innocente disegnata sul viso e guardava l’altro dall’alto verso il basso.

Moravia arrossì. Non sapeva se sfidare Agricolo o chiedere educatamente che gli fosse restituito il suo gioco. «Cristian ti ha visto, dai… per favore».

«Allora, facciamo così…». Agricolo fece un ringhio e fece un passo di lato. «Adesso prendo il tuo amico e gli rovescio la faccia nel cesso, poi vengo da te e vediamo se hai ancora qualcosa da dirmi…». Quindi fece un balzo verso di me, mi afferrò per i capelli e mi trascinò verso il cesso. Mi dimenai ma fu tutto inutile. Più cercavo di scrollarmelo di dosso, più lui faceva forza e mi strattonava come fossi un pupazzo.

«Lo vedi questo?» indicò col mento il buco dove tutti pisciavano e cagavano. – Questo è il posto in cui deve stare chi fa la spia. Mi spinse la faccia dentro. Adesso la puzza di piscio era insopportabile.

«C’hai ancora voglia di parlare?». Sentivo la voce lontana, come se provenisse da un altro universo.

Mi opposi con tutta la forza che avevo nelle spalle ma niente da fare. Mi immerse la faccia nell’acqua. Chiusi la bocca per non bere e trattenni il fiato.

«Che succede?». Sentii una voce, ma non riconobbi di chi fosse.

«Fatti i cazzi tuoi» urlò Agricolo, rivolto all’altra parte della porta.

Mi tirai su un attimo, e ripresi fiato. Quindi picchiai la mano sulla tavoletta. «Aiuto! Aiuto!».

«Sta’ zitto!». Una strattonata e tornai con la testa nel cesso.

Poi, sentii il rumore di qualcosa che si rompeva. Agricolo mi tirò su. Mi guardò con la carogna negli occhi e mi gettò contro il muro. Davanti a me Bernini e la porta sfondata. Di Moravia neanche più l’ombra.

«Adesso ti faccio vedere io». Agricolo si girò e affrontò Bernini.

«Lascialo stare».

«Altrimenti?»

Bernini parve pensarci un po’ su. «Altrimenti… chiamo qualcuno e ti faccio sospendere».

Notai che Agricolo tirò fuori un coltello a serramanico. «Lo vedi questo?». Fece scattare la lama. «Con questo ti strappo il fegato e poi me lo mangio».

Bernini sorrise.

Agricolo sciabolò il coltello e provò a colpirlo. Bernini schivò il colpo buttando la testa all’indietro. Iniziò ad arretrare fin quando non urtò con il sedere il lavandino. Era in trappola. Mentre indietreggiava, la fiaschetta d’acciaio gli era caduta e ora stava alla sua destra, a metà tra lui e Agricolo.

«Che fai scappi?». Agricolo avanzò ancora. Poi posò lo sguardo sulla fiaschetta. «E quella che cosa è?».

«Non sono affari tuoi».

Agricolo scoppiò a ridere e sembrò fissare una scritta verde sul muro. «Bevi a scuola?».

«Non ti conviene scoprire che cosa sia». Bernini mi lanciò un’occhiata, come a sincerarsi che stessi bene.

«Altrimenti cosa mi fai?».

«Non lo vorresti sapere».

Agricolo ignorò quelle parole e si chinò a prendere la boccetta. Il coltello sempre puntato verso Bernini. «Credo che potrei bermene un goccetto per festeggiare quanto male ti farò». Fece un sorso. «Ma che cazzo è?» Agricolo sputò immediatamente. Il muro, vicino alla scritta, divenne tutto rosso.

Si voltò verso l’altro. Gli occhi di Bernini lampeggiarono come gli abbaglianti di un auto in corsa nella notte. L’incarnato della pelle diventò bianco, le vene sotto le palpebre presero vita e disegnarono un intreccio fino alle guance. Spalancò la bocca. I canini erano lunghi come zanne affilate.

«Io ti uccido!». Agricolo si fiondò contro Bernini. Approfittai del momento per sgattaiolare fino alla porta. Strisciai fuori e, quando mi alzai, un forte dolore mi stringeva la caviglia.

Dovevo chiedere aiuto.

Mi guardai intorno per vedere se ci fosse qualcuno.

Nessuno.

Era troppo presto. Puntai la segreteria, la mia classe era troppo distante. Partii di corsa, svoltai l’angolo ma inciampai col muso contro Sara.

«Dove vai così di corsa?»

«Ho bisogno di aiuto!»

Lei allargò gli occhi verdi. «Perché?».

«Non c’è tempo!» La presi per un braccio.

«Perché?».

«Nel bagno…».

Sara annuì. «Andiamo!».

Le feci strada, poi Sara si piantò davanti la soglia del bagno.

«Cosa hai fatto alla gamba?».

Troppo tardi.

Avevo già aperto la porta.

Agricolo era schiacciato contro il muro, i denti di Bernini conficcati nel suo collo e la bocca che pompava sangue come una zanzara gigante.

Il coltello di Agricolo era a un metro da loro e la sua testa, bianca come un cencio, penzolava da un lato.

«Oh mio Dio! Cosa cazzo sta succedendo?» Sara cacciò un urlo disumano.

Bernini sollevò la testa. Si girò, i denti macchiati di rosso. Sorrise. Poi tornò a succhiare con più veemenza.

Dopo un tempo che mi sembrò infinito lo lasciò scivolare a terra. Per un attimo, mi parve di vedere le iridi rosse bruciare nei suoi occhi. Poi riprese sembianze umane. Aveva il fiato grosso come avesse terminato una battaglia contro cento soldati.

«L’hai ucciso!» Sara sembrava incredula.

«Andate via!».

Sara fece un passo verso di lui.

Bernini strinse gli occhi. «Ho detto che ve ne dovete andare».

«E tu che cosa farai?». Sara continuò ad avanzare. «Ti aiutiamo, dai» aggiunse Sara.

«Hai sentito cosa ha detto?» intervenni. Quindi afferrai la mano di Sara e la tirai a me.

«Ho detto che ve ne dovete andare». Bernini ci spinse fuori. Richiuse la porta.

Andammo via, senza più dire nulla.

Un’ora dopo una delle bidelle trovò Agricolo seduto sul water con il corpo che pendeva in avanti e il sangue che fluiva dal collo verso il petto.

Quel giorno, Sara mi invitò a casa sua.

Forse voleva parlarmi di quanto era accaduto.

Tirai fuori il mio maglione blu, quello che indossavo per andare a messa la domenica e un paio di jeans che mi ero comprato l’estate scorsa e che utilizzavo solo in occasioni speciali. Mi lisciai i capelli con l’acqua del rubinetto e mi cosparsi di dopobarba, quello di mio padre.

Mi presentai a casa di Sara alle nove. In perfetto orario.

«Entra» Sara mi accolse con un sorriso. Indossava una felpa dei Nirvana e degli shorts verde acqua. «Andiamo su, in camera mia».

Salimmo sopra, lei si accomodò sulla sedia girevole davanti al computer con il petto contro lo schienale e le cosce che sbucavano ai lati bianche e sode. Io mi sedetti sul letto, ricurvo e con le mani congiunte.

Finalmente. Avevo sempre sognato di essere invitato in camera sua.

«Dimmi un po’: sei pronto per l’interrogatorio di domani?» mi domandò, improvvisamente.

«In che senso?».

«Davvero vuoi incasinare Bernini. Lui ambisce a diventare qualcuno di importante e difendere la sua razza».

Non ero certo di aver compreso, ma decisi di andare oltre. «E tu queste cose come le sai?».

«Oggi siamo andati a farci un giro in piazza, davanti alla biblioteca e abbiamo chiacchierato un po’».

Ero sempre più confuso.  «Quindi, io, che cosa dovrei fare?».

«Nulla». Disse lei con naturalezza. «Non devi fare proprio nulla».

«Mi stai chiedendo di essere suo complice?»

Sara scosse la testa. «Ti sto chiedendo di fare la cosa giusta».

«E se mi beccano?».

«Cri’, tira fuori le palle».

Tirare fuori il carattere.

Era questo quello che dovevo fare.

Il giorno dopo incrociai Sara durante il cambio dell’ora. Sembrava molto tranquilla, quasi come se la sera prima non fosse mai esistita. «Ti hanno già convocato?» mi domandò. Quindi, non mi diede nemmeno il tempo di rispondere. «A me sì. Ho detto all’ispettore che non conosco nessun vampiro in questa scuola. Sono stata una delle prime per via del fatto che faccio volontariato al Margot. MANCANO LE VIRGOLETTE E NON SO COME SI FANNO.

«No, non mi hanno ancora chiamato». Quindi mi guardai intorno. Il corridoio era deserto, a eccezione di Bruno, il bidello nano. Attesi che si allontanasse prima di riprendere a parlare. «Sara, ti va se pranziamo insieme? Così, magari, parliamo un attimo».

«Non posso» mi fece, scuotendo la testa. «Ho promesso ad una mia compagna di aiutarla».

Annuii sconsolato.

Stava suonando la campanella dell’intervallo quando Moravia, che stava tornando dall’interrogatorio, mi disse che toccava a me.

«Proprio adesso?» gli domandai.

«Sì».

Si allontanò, senza aggiungere altro.

Gli interrogatori si svolgevano nell’aula di informatica. L’avevano scelta perché era quella più grande. Si trovava vicino al cancello di uscita. Percorsi il corridoio domandandomi chi mi sarei trovato di fronte. Sarebbe stato in grado di mettermi in difficoltà con le sue domande?

La porta era semichiusa.

Prima di bussare chiusi gli occhi, mi voltai e presi un bel respiro.

«Prego, entri!» fece una voce dall’altra parte.

Aprii gli occhi. Bernini e Sara stavano camminando mano nella mano davanti al cancello.

Mi girai, l’ispettore era davanti alla porta.

«Va bene». Dissi con il poco fiato in corpo. «Arrivo».


Vanni Cugliari nasce il 19 settembre del 1990. Deve il suo nome d’arte, diminutivo di Giovanni, al padre che per richiamarlo alla sua attenzione era solito urlargli: “Vanniiiiiii!”

In realtà il padre lo chiamava spesso anche Nanni, soprattutto quando si rivolgeva a lui con toni più amichevoli.

Dopo aver trascurato gli studi ed essersi diplomato con il minimo dei voti all’ITIS di Racconigi, a causa di una fortissima acne, che lo ammazzava emotivamente, incomincia a lavorare coltivando il sogno di farsi desiderare dalle ragazze nei locali notturni.

Una serie improvvisa di eventi negativi(donne, lavoro, conflitti sociali) lo fanno scivolare in un buco nero, dal quale riuscirà ad emergere, iniziando a leggere e accarezzando l’idea di diventare uno scrittore.

Non perde occasione di ammettere che a salvargli la vita è stato il vecchio Hank, meglio conosciuto come Charles Bukowski.

Le letture del vecchio sporcaccione lo aiutano ad accettare i momenti bui e tristi oltre che a passargli più di uno strumento, come sostiene l’autore, sul mestiere di scrivere.

Non si risparmia quando deve andare contro corrente.

Pochi giorni fa è stato sospeso dall’incarico di Cronista per Sprint e Sport. Lui presume che il motivo sia stato affermare su Facebook, dopo l’ultima partita prima che sospendessero i campionati dei dilettanti, che sperava di aver contratto il Covid per avere una scusa valida per non battere la cronaca dell’ultima partita.