Poesie di Fabrizio Sani

poesie di fabrizio sani copertina di Anita Zanetti

Cinque poesie inedite di Fabrizio Sani, tra amore e riflessioni sull’animo umano

Poesia senza amore

Che un riflesso di luci dietro a una porta
non mi faccia immaginare nessuno,
forse non è un dramma.

Che una terrazza umida e buia
compensi una perdita, senza narrazioni,
forse è più giusto.
Che un autobus si arresti sotto casa
e io non mi affacci a guardare fuori,
forse è risparmio di tempo.
Che inchiudere gli errori nella propria immagine
germini scelte lucide e sensate,
forse è un’istruzione per la maturità.
Che io giaccia nell’assenza di pensiero associativo,
sia sempre e mai nel perché sono qui?,
forse rende il lavoro più proficuo.
Che io non veda più in ogni bacio il suo asciugarsi,
più in generale, in ogni oggetto un oggetto smarrito,
forse è libertà.
Che non ci sia il grande freddo o il grande caldo,
non si debba buttare i vestiti o cercarne altri,
forse garantisce equilibrio.
Che inizi a chiedermi chi io sia,
non più il cielo nero, tanto quanto lui era me,
forse è salutare.
Che non si possa salire a cavalcioni su uno sguardo,
tessere baracche nelle quali abitare,
avanzare di fianco all’irrealtà,
essere ingenua gallina e predare la scaltra volpe,
pianificare eventuali viaggi all’indietro,
sollecitare le nuvole a raggiungere la montagna
e rimandare alla sera ogni atto di dolore,
forse rende la vita tollerabile.
Che io non sia felice, certo neanche triste,
e scriva lagnose poesie senza amore
forse, forse, forse, non è un dramma.


Sasso

Sta calando il sole più lungo dell’anno,
mentre torno a casa,
e passo dopo passo incupisco il mondo
col mio transito.
Se ne va senza lasciarmi il tempo di trovare parole
quelle giuste, non queste,
per spiegargli che l’incanto è sempre un affare d’amore.

Ogni volta che riappare Napoli,
un sole salato si mischia alla neve
e ciascun raggio pianta un piccolo seme di malinconia
che in un tempo lontanissimo germoglierà
e un attimo dopo sarà già arido.
Per quanto asfalto possa lastricare lungo le mie arterie
fintantoché rimarranno in vita questi semi ostinati,
miei irriconoscenti nemici –
le loro radici continueranno a frantumarlo
e rendere vano ogni tentativo di ricostruzione.

Tuttora a sera l’aria torrida si intiepidisce,
e si apre ancora qualche finestra,
da una esce la voce secca di una signora in sottoveste,

canticchia una vecchia canzone:
un giovane amore
disperato, che con gli anni si fa più docile
forse anche abietto,
ma meno disperato

ed entra qualche finestra più a destra,
dove la mia immaginazione si svaga
con l’ombra graziosa della vicina,
o forse di suo padre.
E questo cielo di stelle coperte,
sempre, di notte e di giorno, lì per me,
adesso mi guarda per parlarmi e non per ascoltare.
E mi rammenta che uccidere un assassino fa di te un assassino
e che questo è tutto ciò che basta sapere,
anche un bimbo ne tirerebbe le somme:
un doppio colpo di pistola, nello stesso istante,
anticipando il mondo, prima che elegga un vincitore.

Se esiste solo il presente
e il futuro è solo un’ipotesi di passato,
allora ce n’è uno in cui condividiamo le mandorle,
uno in cui ti inseguo per il mondo,
uno in cui non ci siamo mai incontrati.

Rimarrà un sasso a ricordarci del nostro assassino,
perciò il dono che ci siamo scambiati
– come un equivoco, non proprio come un regalo –
non è il sasso, è sopprimere gli assassini dentro di noi,
macchiarsi del reato peggiore: scialacquare un amore,
per smacchiare l’altro per sempre.
Non ucciderai mai più un amore.
Non ucciderò mai più un amore.


Mettiamo un mattino come un altro

Mettiamo un mattino come un altro,
fischiettando tra i marciapiedi della tua città
– fosse fine primavera –
tra gli smilzi fili d’aria
che la mia bocca lascerebbe cadere
abbandonassi anche qualche lacrima,
tu cosa raccogliesti?

Mettiamo in un mattino come un altro
volessimo incontrarci in un bar per il caffè
– fosse fine primavera –
e io mi fossi un po’ attardato.
Una volta terminato il caffè,
mi chiederesti, con aria immatura,
di restituire quel tempo insieme che ti ho sottratto?

Mettiamo, dicevo, un mattino come un altro,
chiudessi i tuoi occhi e con le mani le tue orecchie su di me
– fosse fine primavera –
evaporassi assieme a tutto il mondo.
Supporresti che la vita procede ancora,
che oltre la tua morte nient’altro morirebbe?
Sapresti, con certezza celeste, di avermi davanti?

Vorrei sapere: un mattino come un altro,
ravvisando la luce sensuale del sole
– fosse fine primavera –
cominceresti a pensare al caldo che si attenua
in un mattino di fine estate
e alla vigna dove potremmo spogliarci e baciarci,
tra l’uva matura?

In conclusione, mi piacerebbe capire
semplicemente se posso chiamarti amore.


Vincenza

L’assolo di civette snellisce la lama già sottile,
si stringe lo spazio tra un filo d’erba e l’altro.
Una signora anziana sale lentamente tre gradini,
i suoi passi lasciano impronte nell’aria.
Indugia sul pianerottolo,
sotto una fioca lampadina,
dentro la cornice del portico.
E si guarda indietro un istante.
La riesco a ricordare solo piegata dalla sua gobba
di fatiche, mai lamentate;
comprava da me le tagliatelle all’uovo,
qualche detersivo,
un po’ di formaggio;
nei giorni di festa il suo cortile si affollava di auto
e mia madre le vendeva l’arrosto girato.
Il nostro abitare il mondo è abitare delle intercapedini.
Spegne la luce e rientra in casa.


Siena

La notte era morbida sulle pietre di Siena
e l’aria serena,
distesi come due che non si amano,
ma forse.
Quegli occhi lustri colmi di dolcezza
avrei potuto baciare,
se la notte non fosse stata così morbida
e l’aria serena.

Fabrizio Sani nato in provincia di Arezzo, vive a Roma da sei anni. Laureato in Arti e scienze dello spettacolo alla Sapienza e sta conseguendo la magistrale in Editoria e scrittura nello stesso ateneo. Per le edizioni SuiGeneris ha pubblicato il suo primo libro dal titolo “Si innamoravano tutti di me e io del loro amore”. Suoi testi saranno inclusi nell’antologia InVerse 2020 (John Cabot University). Recentemente è risultato tra i vincitori del premio Ossi di Seppia e del premio Alda Merini.