Una memoria di ferro

Short Story Una memoria di ferro

Short story di Maria Teresa Renzi-Sepe

Al bancone del bar della piazza centrale, l’ingegner Marco Marini ordinò un macchiato freddo al vetro e un cornetto integrale. Il caffè macchiato freddo al vetro era la sua combinazione preferita: il vetro esaltava il gusto del caffè, mentre il latte freddo lo intiepidiva e lo rendeva facilmente bevibile, anche in un paese caldo tutto l’anno come il suo.

Inoltre, pensava lui, un caffè macchiato freddo al vetro era proprio ciò che avrebbe ordinato un uomo che sapeva esattamente cosa volesse, ma non lo sbandierava troppo. Semplicemente, lasciava che fossero le sue azioni, o preferenze, a parlare per lui. Quella domenica, Marco si era svegliato particolarmente di buon umore, per questo si concesse il cornetto insieme al caffè, nonostante un pranzo di lasagne – preparato dalla madre e che lui avrebbe dovuto solo riscaldare in forno – lo attendesse in un contenitore d’alluminio, sul pianerottolo del suo appartamento.

Nel bar entrò una ragazza formosa, capelli appena tinti di biondo e un paio di occhiali da sole neri che le coprivano metà del volto, lasciando intravedere solamente la punta del naso ed un paio di labbra, scontornate da una matita rosso mattone. Marco la seguì con lo sguardo, tentando di capire se la conoscesse: sembrava proprio Melody, la figlia del marmista ricco della ditta F. che aveva fatto fortuna negli anni ’80 aprendo bottega di fianco al cimitero. Per Melody aveva avuto una cotta quando era liceo, se lo ricordava bene: l’aveva invitata ad uscire più di una volta, ma lei non accettò mai nonostante lui fosse sempre stato gentile, le avesse regalato le mimose alla Festa della Donna e non fosse di certo fra i più impopolari della scuola. Le mandò messaggi per tutto il mese successivo, ma ad un certo punto lei smise di rispondere, a suo avviso senza un perché, lasciandogli addosso un’amarezza che solo le sedicenni sono in grado di procurarti. Lui, le donne come Melody, non le capiva proprio. Era chiaro come il sole che portavano quei giganteschi occhiali per celare la noia nel loro sguardo quando incontravano persone come lui. Aveva creduto, troppo ingenuamente, che cinque anni di università telematica, un esame di stato, un lavoro da ingegnere al comune e una rinoplastica pagata con i suoi primi risparmi sarebbero stati il biglietto da visita del suo successo, ma le donne come Melody sembravano non notarlo. A trent’anni avrebbe dovuto sentirsi come credeva si sentisse il suo vicino in quinta elementare, che rientrava tutti i giorni alle otto e mezzo di sera nel vialetto di casa con una Mercedes blu metallizzata. Mentre apriva la portiera, la prima cosa ad emergere dal posto del conducente era sempre uno sgargiante, riflettente Rolex. Suo padre gli diceva sempre: «Bello di papà, vedi, quello è uno che nella vita ha svoltato. Quello fa l’ingegnere». Comunque, a Marco non fece né caldo né freddo quando, l’anno prima, sua madre gli riferì che lo avevano beccato ad evadere il fisco, gli avevano pignorato mezza casa e ­– a detta del consiglio superiore del buongusto composto da lei e da sua sorella maggiore – “magari il Rolex era pure finto”. Non vedeva Melody da sei, o forse sette anni? Possibile. Molti di quelli che aveva conosciuto al liceo erano andati a vivere fuori per frequentare l’università o, più raramente, per lavorare. Tant’è che fra tutti i suoi compagni di scuola solo pochi fedelissimi amici gli erano rimasti accanto in tutti quegli anni, e lui a loro. Cosa ci trovassero le persone, poi, nell’andare a vivere fuori, Marco proprio non lo capiva. Lì da lui c’era già tutto ciò di cui un uomo aveva bisogno per condurre una vita meritevole di essere vissuta: un mercato immobiliare economico e in espansione e una fiorente produzione di carne e prodotti agricoli biologici che – pensava, con grande umiltà – “la gente se la sognava proprio”. Gli occhiali della bionda erano così grandi che Marco avrebbe potuto sbagliarsi sulla sua identità, anche se era assolutamente certo di avere ragione perché aveva una memoria di ferro. Ad esempio, ricordava i numeri di cellulare di tutti i suoi ex compagni del liceo, che iniziavano sempre con 345 perché tutti avevano acquistato la loro prima scheda SIM da quello che, all’epoca, era l’unico rivenditore di telefonia del paese. Comunque, per evitare figuracce e per non darle alcun sentore di essere quello che si ricordava di lei dopo tutto quel tempo, fece finta di non aver visto Melody. Lei andò diritta verso la cassa, giusto ad un paio di metri da Marco; con gli occhiali ancora sul naso e con voce acuta ma rauca esordì con un “pago due Aperol Spritz al tavolo cinque”. Mentre la barista cercava la comanda per battere lo scontrino, la bionda si voltò verso Marco, cercando gli occhiali con le mani.

«Ma tu sei Marco Marini?», disse lei, rivelando gli occhi marroni stanchi e leggermente cerchiati dalle occhiaie coperte dal correttore.

«Io sono Melody. Ti ricordi?».

«…oddio, sì, Melody! Scusami, non ti avevo proprio riconosciuta», disse Marco fingendo stupore. Voltandosi verso di lei, accavallò le gambe prendendo il ginocchio destro fra le mani, come uno psicologo che si prepara ad una seduta di terapia. Il passo seguente fu chiederle come stesse e per quale motivo si trovasse lì.

«Mi sono laureata e adesso sono tornata un po’ qui dai miei».

Marco si congratulò con lei. Melody, con un accenno di orgoglio, disse di essersi laureata in Lettere Moderne, prima che lui glie lo chiedesse.

«E quanto ti fermi?».

«Veramente non lo so ancora…Per ora mentre cerco lavoro aiuto papà in negozio, l’attesa per i concorsi per l’insegnamento è un po’ lunga».

«Lo so, ma hai fatto bene a tornare, qua si sta benissimo. Magari ti riposi anche un po’».

«Magari, sì», concluse Melody, sorridendo. Poi inforcò di nuovo gli occhiali sul naso, come a chiudere la conversazione.

«Sono dieci euro e cinquanta», disse la barista; Melody pagò cambiando una banconota da cinquanta euro. Marco si fece coraggio, si alzò e avvicinandosi le disse:

«Senti…Visto che ti fermi qui, vediamoci ogni tanto». Le propose di andare a fare un giro insieme, per mostrarle il nuovo lungomare.

«Ma sì, dai», disse Melody. «È una bella idea. Ti do il mio numero».

Marco lo segnò sul cellulare e le fece uno squillo, così che lei potesse memorizzare il suo, di numero. Ovviamente fece solo finta di segnare quello di Melody, perché era lo stesso del liceo e lui ce l’aveva ancora in rubrica.

«Allora ci sentiamo?».

«Sì, sì, ci sentiamo!».

Era una bellissima domenica di sole. L’umore di Marco era così buono da raggiungere i livelli di quando, al primo anno di liceo, segnò il rigore che fece vincere alla sua classe il campionato della scuola. Si era meravigliato di quanto Melody fosse bella e gentile e si ringraziò per aver avuto il coraggio di chiederle il numero. E chissà, ora che lei sarebbe rimasta lì per un po’, magari avrebbe potuto uscire con lei, si sarebbe ripreso una piccola rivincita. “Alla fine tornano tutti a casa”, pensò.

Uscendo dal bar, Marco decise di fermarsi dal tabaccaio a comprare un gratta e vinci con il resto del caffè. Sebbene fosse fermamente convinto che i soldi e il rispetto si guadagnassero – tanto da farne il leitmotiv della sua vita – non poteva ignorare l’esistenza di coloro che avevano entrambe le cose già dalla nascita, a differenza sua. Per cui, se c’era un dio equo, avrebbe potuto fargli vincere dei soldi, perché almeno quelli glieli doveva. Marco abbreviò il percorso che lo separava dal tabaccaio, passeggiando fra i vicoli del centro che dalla piazza centrale si diramavano in tutte le direzioni, per poi sbucare nei quartieri residenziali pieni di quelle belle villette bianche a due piani con le magnolie nel giardino. Nel centro del paese la domenica profumava di soffritto e di ragù, un odore di cui le pietre quasi trasudavano e che ogni tanto si mischiava a quello del sapone dei panni stesi o dei fiori sui davanzali. La zona era chiusa al traffico e dopo la messa si svuotava quasi del tutto, lasciando spazio solo al rumore delle tavole apparecchiate e delle televisioni sintonizzate sui telegiornali. Svoltando in una viuzza a destra della chiesa centrale, una scena a cui non si sarebbe mai aspettato di assistere – e che mise a fuoco con difficoltà – interruppe quel momento di calma idilliaca. Luca, il suo migliore amico, quello che conosceva da quando portavano i pannolini, con cui aveva condiviso i banchi dell’asilo, del liceo e pure del catechismo, stava seduto sul marciapiede, la sigaretta in mano. Marco fece per accelerare il passo andandogli incontro, ma si bloccò quando vide avvicinarsi a Luca una persona che riconobbe come Gigi, detto “la Boa”, un ventenne la cui stazza non passava di certo inosservata e che non era proprio quello che lui avrebbe definito “un bravo ragazzo”. Lo si poteva capire dalla quantità di macchine sportive con cui lo si vedeva girare in paese durante l’anno. Luca scattò in piedi quando vide arrivare il ragazzo: nel giro di nemmeno cinque secondi, Gigi prese qualcosa dalle mani di Luca e continuò per la sua strada. Luca restò lì da solo, con la sigaretta ancora in mano e lo sguardo fisso a terra.

Marco stava fermo, in piedi, come se un ratto gli avesse tagliato la strada. A pensarci bene, ultimamente Luca sembrava più triste del solito; più che triste, Marco avrebbe detto che era “spento”. Ad esempio, non rispondeva quasi più sulla chat di gruppo o spesso inventava scuse dell’ultimo minuto per non uscire il sabato sera. Una volta a cena, nel mezzo di una conversazione sul caro della benzina, aveva annunciato ad alta voce, davanti a tutti, che aveva iniziato a vedere un terapista. Marco aveva attribuito quell’uscita – che non stonava troppo con la personalità un po’ lagnosa e cedevole di Luca – al licenziamento del mese scorso. Anche se Luca non aveva a tutti gli effetti bisogno di lavorare: la rendita del padre avrebbe potuto garantirgli di superare molti, molti altri licenziamenti. Comunque, nulla di tutto ciò giustificava la scena a cui aveva assistito e il fatto che non sapesse nemmeno che Luca conoscesse, o addirittura parlasse, con Gigi la Boa. Non che i due ne avessero effettivamente parlato di queste cose: quella fra lui e Luca era una vera amicizia e gli amici veri non si chiedono mica “come stai”. Come si fa per svegliare le gambe quando sono intorpidite, Marco raggiunse Luca, a passo lento, controllato e in silenzio.

«Oh, Marco, ciao…», disse Luca, scattando come una molla alla vista di Marco, buttando la cicca a terra e schiacciandola col piede. Prima che proseguisse con i convenevoli, Marco sbottò:

«Che cazzo stavi facendo con Gigi? T’ho visto».

«Guarda, lascia perdere…mio fratello è un coglione. Gli doveva cento euro per l’erba e invece se li è mangiati al poker online. Questo gli rompeva le palle per i soldi e ha chiesto a me di aiutarlo. Dopo a casa gli faccio un culo così», disse Luca, allargando le mani pallide ad indicare la dimensione del culo che gli avrebbe fatto.

Marco si sentì più leggero: aveva perfettamente senso, Luca mica si faceva. E poi era ipocondriaco e paranoico, non reggeva nemmeno un tiro di canna.

«Cazzo, mi dispiace. Ma che gli è preso a tuo fratello? Digli che si rimette a studiare, sennò la prossima volta che lo vedo glie lo faccio pure io un bel discorsetto», disse Marco mieloso e ammiccante.

«Riferisco. Ma ci penso io a fargli passare la voglia di indebitarsi con ‘sta gente», concluse Luca. Poi si accese un’altra sigaretta. Marco, guardandolo mentre trafficava con l’accendino, gli chiese se si sarebbero visti il pomeriggio successivo per il caffè.

«… giusto, certo. A domani Marco, buon pranzo», rispose Luca dopo un secondo di troppo, dandogli due pacche sulla spalla prima di allontanarsi. Evidentemente, aveva dimenticato di nuovo il loro appuntamento.

Il lunedì pomeriggio, il bar della piazza centrale brulicava di madri che tracannavano Negroni e Irish coffee sedute ai tavolini di plastica scoloriti, in attesa dell’uscita dei figli dal catechismo. Marco e Luca, spiaggiati su due sedie appartate all’ombra, si godevano lo spettacolo, visto che molte di quelle “mammine” – come le chiamavano loro – ancora giocavano nel campionato giusto.

«Oh. Hai visto quella?», disse Marco tra i denti, indicando con il sopracciglio una signora prosperosa, tutta pelliccia e muschio bianco.

«Maa-donna», rispose Luca eloquente. Sembrava tranquillo, quasi normale a detta di Marco. Inoltre, quando Luca si era alzato per andare in bagno, gli aveva rovistato nel borsello e non ci aveva trovato niente di strano. Dopo interminabili minuti di silenzio, interrotti solo dalle tortore e dai racconti di una madre secondo cui “il disegno di arte di Carletto era copiato bene, e quella stronza della maestra gli ha messo solo ‘buono’”, Luca puntò un orizzonte immaginario e disse:

«Comunque, esco con una. Stavolta è una che mi piace proprio».

«Hai fatto il colpo allora! Ma la conosco?».

Luca roteò lentamente il volto verso Marco. Le sopracciglia scure si alzarono sugli occhi cerchiati dalle occhiaie: sembravano due archi all’ingresso di una galleria sulla provinciale.           

«Se ti dico chi è, ci rimani di sasso. Indovina?».

Luca, che era una persona molto teatrale, di solito creava suspense laddove non ce n’era assolutamente alcun bisogno. Era una cosa che Marco non sopportava, perché la considerava una velleità che la gente come lui non poteva permettersi di avere, sebbene ne condividesse le ragioni più profonde. Ad esempio, Luca diceva sempre che la vita era come mangiare ad una mensa dove ti servono tutti i giorni petto di pollo scondito e che sta a noi condirlo, ma qualche volta ti servono la bistecca: proprio un discorso da ricchi. Certo che si trattasse di uno dei soliti siparietti di Luca e che si riferisse a qualche tizia a caso che bazzicava la parrocchia, Marco fece finta di pensarci un po’ su e poi disse che no, non sapeva chi fosse la fortunata e si arrendeva.

«Melody! Ti ricordi? È tornata qua, l’ho incontrata in piazza la settimana scorsa, non ci potevo credere. A parte che è bellissima. E poi, beh…lo sai, mi è sempre piaciuta, lei. Da quando andammo insieme alla festa dei cento giorni, ma ti ricordi?», disse Luca, terminando la battuta dandogli un buffetto sul petto con il dorso della mano.

Marco rimase in silenzio, facendo finta di fare mente locale. “Bell’amico”, pensò. Era evidente che Luca aveva completamente dimenticato che cotta aveva avuto per Melody al liceo. Si ricordava per filo e per segno tutte le volte che ne avevano parlato a ricreazione, a scuola calcio, su MSN, in motorino. Ma a quanto pare, Luca non ricordava nulla, nemmeno di quella volta in cui aveva preso a pugni un palo della luce solo perché l’aveva vista uscire con uno del quinto anno. E poi, questa storia di Luca e Melody… in realtà non se la ricordava proprio, questa fantomatica festa dei cento giorni. Sicuramente l’aveva inventata o confusa con un’altra festa. Di una cosa era certo: che a lui piacesse Melody, Luca non glie l’aveva mai detto.

«E come no, sì che mi ricordo! Tengo le dita incrociate per te allora», rispose Marco, sorridente.

Qualche giorno dopo, Marco invitò comunque Melody ad uscire. Gli sembrava giusto avere la sua chance con lei e non credeva fosse necessario che Luca lo sapesse sin da subito: ormai erano due adulti, il liceo era un tempo lontano e sarebbe stato infantile da parte sua portare rancore al suo migliore amico per una tale sciocchezza, una dimenticanza. Di Melody glie ne avrebbe parlato, a tempo debito, certo che Luca avrebbe capito la situazione, così come lui aveva compreso la sua ed aveva taciuto, lasciando che facesse ciò che lo rendeva felice.

Passò a prendere Melody in auto e la portò a passeggiare sul lungomare, offrendole un bicchiere di vino e un tuffo nei vecchi tempi. Fu una serata piacevole, trascorsa fra i ricordi e le risate, proprio come se la immaginava. Le confidò persino che aveva dato un pugno ad un palo per lei e che aveva ancora il suo numero di cellulare memorizzato. La cosa la fece sorridere bonariamente.

Sul finire della serata, il discorso andò pure su Luca.

«Allora, so che siete usciti. Da quant’è che non lo vedevi?».

«Tantissimo, forse anni? È stata una serata davvero carina, siamo stati in quel locale nuovo, com’è che si chiama…?».

Marco cambiò espressione in modo impercettibile; poi si fece tutto sorpreso.

 «Ah. Davvero è stata una bella serata?», disse lui.

«Si, perché me lo chiedi?», rispose Melody accigliata.

«Beh», sbottò Marco, «non so se lo hai saputo, ma d’altronde sei qui da poco tempo. Magari non ci hai fatto caso l’altra sera, ma Luca è sempre fatto ultimamente».

Maria Teresa Renzi-Sepe nasce a Fondi (LT) nel 1992. Durante gli anni del liceo si avvicina alla scrittura, ma molla tutto laureandosi in Archeologia nel 2017. Attualmente vive in Germania, dove è dottoranda e assistente di ricerca in Assiriologia presso l’Università di Lipsia.
Esasperata dalla scrittura accademica, dal 2021 torna a coltivare la sua passione per la scrittura creativa, soprattutto per la forma del racconto.

Illustrazione di Lorenzo Pierini