Amato da critica e pubblico, il romanzo di Hanya Yanagihara sembra aver messo tutti d’accordo, ma è davvero così?
Piano piano ci siamo arrivate anche noi di The Bookish Explorer: incerte se acquistarlo o meno, alla fine abbiamo deciso di lanciarci nella lettura di Una vita come tante, dell’autrice Hanya Yanagihara, tradotto in italiano da Luca Briasco per la casa editrice Sellerio.
Pubblicato nel 2015, Una vita come tante continua a far parlare di sé, nel bene e nel male. Infatti se cercate nel web, vi accorgerete che le recensioni e i reading vlog sull’argomento sono davvero moltissimi e che continuano ad esserne pubblicati di nuovi. E questo fenomeno, il fatto non solo che si parli molto di un libro, ma che la conversazione su di esso continui negli anni, è molto bello, perché ci consente di non cadere nella disperazione indotta dalle statistiche su quanto poco si legge in Italia. Tuttavia, Una vita come tante non è affatto il libro che mi auguravo e credevo di incontrare.
Premetto che, se continua a vendere, significa che questo romanzo è piaciuto, piace e continuerà a piacere a moltissim* lettor*, e che quelle che seguono sono le mie opinioni, attraverso le quali non voglio offendere nessuno, tantomeno elevarmi a critica letteraria, quindi prendere le mie parole per quello che sono: opinioni appunto.
Andiamo, allora.
Una vita come tante presenta una serie di problematiche che fanno diventare il libro un romanzo come tanti. Come indicato sul retro della copertina della versione italiana, Una vita come tante viene accostato al romanzo ottocentesco per la sua mole (1090 pagine), ma è considerato “modernissimo per i suoi temi.” Se pensiamo al romanzo europeo del diciannovesimo secolo, La casa desolata o Il nostro comune amico di Dickens, Middlemarch di Eliot o I fratelli Karamazov di Dostoevskij ci rendiamo conto che sì, anche questi romanzi constano un elevato numero di pagine. La domanda che mi è venuta spontanea è dunque stata: e allora? Perché paragonare Una vita come tante a un romanzo dell’800, se non ne condivide nemmeno l’impianto ma solo il numero di pagine? Cosa dovrebbe significare, e perché questo paragone? Questo è stato il primo momento di perplessità.
Il secondo è arrivato poco dopo: “modernissimo nei temi” dice ancora il retro della copertina, ma quali sono questi temi? Dove possiamo trovare questa ultra modernità? Nell’autolesionismo? Negli abusi sessuali su minori? Nell’amicizia, l’amore omosessuale tra due personaggi che non si dichiarano mai omosessuali, nell’essere orfani? Nella perdita di un fratello con paralisi cerebrale? A trovarla questa modernità, non ci sono riuscita. È vero, non incontriamo romanzi che affrontano queste tematiche così spesso, ma forse anche qui si è esagerato nel connotare in questo modo il romanzo di Yanagihara, che sì mette in scena il male, ma non in modo rivoluzionario o modernissimo.
Un altro problema è il fatto che si sia scelto di parlare estensivamente di autolesionismo, abusi sessuali, violenza, pedofilia, stupro e tentativi di suicidio senza inserire un disclaimer all’inizio del libro. Ecco, i libri e le storie dovrebbero essere accessibili a tutt*, e come in questo caso, a volte sarebbe utile avvertire chi si approccia alla lettura che dentro vi potrà incontrare tematiche molto forti, e spesso difficili da affrontare, ed essere di conseguenza liber* di fare la propria scelta informata di continuare a leggere o no.
Inoltre, nella rubrica “Page Turner” del New Yorker, Jon Michaud scrive:
[…] counterintuitively, the most moving parts of “A Little Life” are not its most brutal but its tenderest ones, moments when Jude receives kindness and support from his friends.
What makes the book’s treatment of abuse and suffering subversive is that it does not offer any possibility of redemption and deliverance beyond these tender moments. It gives us a moral universe in which spiritual salvation of this sort does not exist.
Se Thomas Hardy fosse ancora in vita direbbe: “Yanagihara, welcome to the club.”
Ed è probabilmente proprio a quel Jude di Hardy che si è ispirata l’autrice americana per creare il protagonista del suo romanzo. Tuttavia anche qui per me è molto difficile accostare la tragedia dei personaggi di Hardy con quelli di Yanagihara. La disperazione di Tess quando tira il collo ai fagiani per porre fine alla loro sofferenza, che è anche quella che prova la protagonista stessa, o quella di Jude quando vede i propri figli uccisi dal primogenito perché erano in troppi e il cibo non sarebbe bastato per tutti non è in nessun modo accostabile per intensità a quella che troviamo in Una vita come tante. La scrittura, per quanto limpida, rimane sempre in superficie, non scava, ma allo stesso tempo non è in grado di raccontare il male e il dolore attraverso accenni o allusioni. Rimane piatta e a volte diventa grafica, portandomi a chiedermi se questo modo di descrivere la violenza, fisica e psicologica, serva davvero a qualcosa. E dunque Jude è oscuro solamente nella misura in cui il suo passato ci viene svelato lentamente nell’arco di tutte le oltre mille pagine del libro.
Inoltre, in questa sequenza di problematiche che a mio parere si possono riscontrare il Una vita come tante, c’è l’appartenenza di classe della maggior parte dei personaggi che popolano questo romanzo. Tutti i personaggi che vivono nel presente della vicenda infatti sono ricchi, appartengono alla classe agiata, vivono in bellissimi appartamenti di New York, viaggiano per passione e per lavoro, comprano case a Londra e costruiscono ville nella foresta. Ora, Una vita come tante ha tutta l’aria di voler essere una tragedia contemporanea, di voler arrivare a toccare vette che pochi libri sono in grado di raggiungere. E anche qui non ci riesce, perché far appartenere tutti i propri personaggi alle alte sfere della società risulta essere un escamotage fin troppo facile, prevedibile e banale per poter continuare a scrivere la storia che si vuole scrivere.
Per farvi solo uno dei numerosi esempi che si possono trovare nella narrazione: ad un certo punto, circa a metà del romanzo, Jude tenta il suicidio, ma non riesce ad uccidersi. Chiaramente deve trascorrere un determinato periodo di tempo in ospedale e poi potrà tornare a casa, ma non può mai rimanere da solo a causa della pericolosità del gesto che ha tentato di compiere. Jude è un avvocato di grande successo; i suoi genitori adottivi, Harold e Julia, sono professori universitari; il migliore amico di Jude è un attore cinematografico affermato. È chiaro che su questo sfondo sociale, badare a Jude sia in ospedale che durante la convalescenza domestica è estremamente più facile che non se tutti questi personaggi avessero lavorato, ad esempio, come baristi, operai, fattorini, magazzinieri per Amazon o riders per Deliveroo. Se Willem, Jude, JB e Malcolm, Harold e Julia avessero vissuto una vita non particolarmente agiata, come capita sempre più spesso a un numero sempre maggiore di persone, allora sia il titolo, A Little Life e Una vita come tante, sarebbe stato davvero potente, come anche la tragedia che vi si consuma al suo interno.
Infine alcuni, tra i quali Jon Michaud sul New Yorker online, hanno definito Una vita come tante un romanzo di formazione. Tuttavia, in realtà * lett* incontrano i personaggi quando hanno già raggiunto la maturità adulta – per quanto oggi gli anni del college siano diventati un prolungamento del liceo – e vedono dispiegarsi le loro vicende nella vita adulta. In più, i personaggi rimangono fedeli a sé stessi durante tutto l’arco narrativo: Willem l’ottimista, JB l’esuberante dalla lingua tagliente, Malcolm quello preciso e Jude.. rimane Jude. Non c’è crescita, non c’è cambiamento. Nelle varie decadi che si susseguono nel romanzo, la vicenda segue un paradigma che alla fine si ripete sempre uguale e dunque parlare di romanzo di formazione risulta molto tirata come argomentazione. Per quanto riguarda Jude, la sua formazione non esiste, perché ci vengono raccontate la sua infanzia e adolescenza come una sequenza di traumi irreversibili, senza accenni alla sua formazione appunto.
In conclusione, Una vita come tante ha una serie di problemi che per me sono stati insormontabili: la lingua e l’ambientazione sociale in primis, la volontà raccontare una vita tragica e non riuscirci pressoché mai. Ciò non toglie che questo non sia un romanzo che meriti di essere letto e apprezzato da chi sarà più incline di me a farlo. Ci tenevo a raccontare i miei pensieri su Una vita come tante nella speranza che possano essere degli ulteriori spunti di riflessione su quest’opera giunonica.
Giorgia Damiani