Una selezione di poesie da Il contrario di abitare di Fabrizio Sani
Uomini-sabbia
Siamo uomini-sabbia,
equivalenti, ammassati, sottili, trascurabili;
in balìa della pietra e dell’aria,
del tuttavia che ridimensiona le fantasie.
Per questo motivo Pierpaolo ha rotto il bicchiere,
stamattina. Quello che avevi rubato per me.
E non mi sei mancata.
Si è liberato dei frammenti,
mi ha chiesto scusa
e non mi sei mancata.
Nel pomeriggio Lorenzo ha buttato la spazzatura:
adesso non c’è più nessun bicchiere
rubato per me, sopra il lavandino.
E non mi sei mancata.
Briciole di vetro – verosimilmente –
sono annegate in fondo al tubo di scarico;
resti di cibo e tanta acqua per pulire ogni ricordo,
persino il tuo – gli saranno di compagnia.
Proprio perché non mi manchi
ho passeggiato serenamente sul luogo del decesso,
mentre penetravano dalla finestra i rintocchi di una campana,
Anita dipingeva e sulle sue guance e sulla sua tela
gocce marroni rotolavano giù.
Non mi sei mancata, no;
siamo uomini-sabbia e i nostri sogni
non sono che ombre irrilevanti.
Se mi fossi mancata sarebbe andata diversamente:
ogni cosa si sarebbe seccata al mio sguardo,
il marmo del tavolo si sarebbe crettato
e la pelle del conduttore in televisione sarebbe sgualcita e ingrigita,
scoraggiandomi a cercare uno specchio
per fissare le mie lunghe ciglia appassire
e precipitare laggiù in fondo, assieme alla polvere di vetro,
quasi sabbia, ma non mi manca.
Se non fossimo uomini-sabbia
mi ameresti di nuovo
e accadrebbe presto,
sarebbe semplice per chi ha dei sentimenti
e se proprio tu fossi l’unica ad averli
vorrai vedermi di nuovo e non potrai
e questo sarà il perché: siamo uomini-sabbia.
E tu ci crederai, non avrai alternativa.
È così che deve andare, cadranno le tenebre,
l’acqua che ci inghiottirà – attraversandoci –
diventerà sempre più scura
impedendoci di vedere attraverso,
non proveremo nostalgia.
Con le mani
Se lo sapessi e fosse no
e intrecciassi fili su fili
per fare il tempo con le mani,
e intanto iniziassi a raccontarti di una donna,
era il 2013 e tra queste mani rabbrividiva,
era bene che ruscellava nel dolore,
un oceano di dolore di un padre
che era padre nel pudore e un figlio
senza voce evaporato tra i romanzi della libreria,
nei vestiti stesi al vento, dentro al sibilo di nuovo motore;
qualche altra fine che non conosco
e una che le ho negato.
Se lo sapessi e fosse no
e intrecciassi fili su fili
per fare il tempo con le mani,
inizierei a raccontare il viaggio da me a me
che Valentina percorse per accompagnarmi
a incontrare chi sono ora,
e qualche fine che conosco
ma non la fine di una storia d’amore.
Se quel che diresti lo sapessi e fosse no,
intreccerei fili colorati su fili colorati
per fare il bene con le mani.
Paolino
Paolino ha detto: “festeggio a Firenze,
da mia sorella, rimango due, forse tre giorni.
Mi annoierò, come mi annoio qua, ma qualcosa bisogna pur farla”.
Ha azionato l’accendino e accompagnato con gli occhi i suoi passi,
ma la badante della signora di fronte non si è voltata.
Dopo tre tiri ha spento la Chesterfield
e adesso le sue mani frugano inquiete:
vogliono raggiungere le chiavi dell macchina,
qualcosa che sappia di partenza.
Per tre giorni non lo vedremo al bar. Sarà a Firenze, dalla sorella.
Sarà triste, come lo è adesso,
ma forse in mezzo a persone che non lo sanno così bene.
Natalino alza gli occhi dal telefono e dice che domani pioverà.
“Quando torni a Roma?” mi chiede Paolino.
“Domani”.
Già lo vedo immaginarsi che su me pioverà champagne.
Parla delle mie donne e chissà quali sono le sue fantasie.
Vorrei dirgli che adesso le tocco con più paura,
ma non con meno dolcezza:
quando mi chiedono una carezza in più, dico che sono già stato derubato.
Ma gli occhi di tutti mi guardano ingenui, amichevoli e leali
e io non voglio sconcertarli con la verità.
In questi momenti mi sento un ladro,
perché solo questa era la sua poesia, per lui non ce ne sono altre.
E invece mi perdo a parlare di me.
Sopravvivono sempre i peggiori;
e più sopravvivo, più legami mi soffocano il cuore,
meno le mie risposte sono sensibili al dolore.
Così stamattina, prima di ripartire,
sono passato al bar per il caffè,
e Paolino era lì.
Una canzone triste
Mia nonna è il dipinto di mia nonna.
Mia nonna è l’inquilina di mia nonna.
Per me era il volto della domenica mattina
e qualche nascita e qualche morte e qualche eternità
che rotolavano dentro le rughe di un paese,
senza spingersi mai oltre la vecchia chiesa.
Mia nonna si avvicina lentamente,
molto più lentamente di ogni altra volta.
Mia nonna è il male minore di mia nonna.
Mia nonna mi mette una mano sulla spalla
e i capelli smorzano la carezza che dona.
Mia nonna è quel gesto obliquo con cui le tengo la testa
e ci insegna che niente dà più intimità della sofferenza.
Si ricorda quella canzone triste,
dice che fa: na na-na-na-na na na.
Per la prima volta in una vita intera
le sorrido per davvero
Parietaria
Marica è un temporale.
Di quelli primaverili
che lasciano in giro l’odore di parietaria.
È abbastanza per tagliarmi i respiri.
Educata e graziosa,
dovunque in questa stagione:
veste il mondo intero, camuffata,
banalmente, gialla di sole e rossa di passione.
Ma è verde di incoscienza
e serenità selvaggia.
L’attraverserò senza toccare niente,
ne uscirò a mani vuote.
Potrò solo correre,
fradicio, trascinando via con me
il mio sconfinato amore,
senza raggiungere mai
un tetto o un riparo,
da quest’aria gravida di parietaria innocente.
Fabrizio Sani è nato in provincia di Arezzo nel 1994 e vive a Roma. È laureato in Editoria e Scrittura presso La Sapienza. La sua prima raccolta di poesie, Si innamoravano tutti di me e io del loro amore, è uscita per SuiGeneris Edizioni nel 2018. Ha collaborato con case editrici e agenzie letterarie. Si occupa di letteratura e cinema su riviste cartacee e digitali. Partendo da alcune poesie contenute in questo libro, ha scritto e portato in scena (assieme al musicista Marco Nardone e alla pittrice Anita Zanetti) uno spettacolo dal titolo Lessico della mancanza. Altre sue poesie qui.