Lavori in corso

Short Story Mario Altrui

Short story di Mario Altrui

Seconda, terza, quarta.

Non ancora, non ancora, non ancora. Adesso. Mi sposto a destra, recupero, faccio ciao ciao. Quarta, quinta e sesta. Ah, questa è pericolosa. Ogni volta ci perdo un paio di decimi. Rallento? No, perché dovrei. I freni li ho oliati. Le gomme reggono. Te lo ricordi Mario? Il mio meccanico, quello tutto pulito che tu mi chiedevi sempre: ma come fa a lavorare in un’officina? È stato lui a rimettere in sesto questo gioiellino. Cinquemila euro, prezzo amico ha detto, per poco mi lasciava in bancarotta. Pure le gomme voleva cambiare, ma gli ho detto: facciamo un’altra volta che ora ho una voglia matta di guidarla, sono anni che non lo faccio, lo sai.   

Mi sa che non sono le gomme il problema. Lo senti? È tipo un fischio. Non va bene, devo scalare: quinta, quarta, ma porca miseria s’è inceppato il cambio. Okay, s’è ripresa, lo sento. Se sto stronzo si leva ripartiamo. Quarta, quinta, sesta. Sesta! Sesta! Che bella sensazione, non mi sentivo così veloce da un’eternità.

Tu, te lo ricordi quando ero il più veloce del mondo? Nelle mie vene scorreva benzina. M’era riuscito di indossare la tuta rossa, il sogno d’una vita. Che te lo ricordo a fare, tu c’eri lì, ricordi? Ci siamo persi di vista un paio di anni prima della fine, giusto? Sono stato uno stronzo a cacciarti dal box, non lo sapevo mica che un ingegnere come te non lo avrei mai più incontrato. Avevo ancora bisogno del tuo aiuto. E invece non t’ho manco chiamato quando m’hanno cacciato, cioè me ne sono andato, per raccontarti come è andata tutta la storia. Chissà che hai sentito ai telegiornali. Che idea te ne sei fatto?

Mi piacerebbe raccontartela ora, la verità. Non montarti la testa, non è una cosa sdolcinata, è che da quando t’ho cacciato via è andato tutto a rotoli. È iniziato tutto lì, no? Magari così si sistema tutto. Non ricordo neppure le parole che ti ho detto. Lo sai che la mia memoria fa schifo e poi è pure peggiorata.

Quelle che m’hanno fregato, invece, certo che me le ricordo. Sono state le parole a farmi cadere, semplici parole. Noi ci massacriamo dentro queste macchine, dominiamo centinaia di cavalli di potenza, e poi bastano una manciata di parole per cadere nell’abisso. Le ricordo nel perfetto ordine in cui sono state pronunciate, forse non nell’intonazione ma chi se ne frega. Erano: non potrai mai vincerlo questo campionato, sei troppo stupido per farlo.

Eravamo a cena a Montecarlo, un gruppo di persone che onestamente fatico a ricordare perché avevo bevuto troppo vino. Ma quelle parole, non potevo ignorarle. Raccolsi ogni briciolo di lucidità e mi concentrai su quella odiosa voce che veniva dall’altro lato del tavolo. Ce l’aveva proprio con me. Sei troppo stupido per vincere questo campionato. Sono abbastanza sicuro fossero queste, sì. Venivano da Rosberg – junior, s’intende – quello che ha vinto un mondiale strappandolo ad Hamilton chissà come. Anzi lo so, schiantandosi nella sua macchina e lanciandogli il malocchio. Ecco come.

Ricordo che avrei voluto dirgli: ripeti quello che hai detto crucco del cazzo. A quanto mi dicono i presenti a quella cena, ma te lo potrebbe raccontare anche chi non era presente, ne venne fuori un farfugliato tentativo di risata seguito ad un brusco movimento del mio polso. Quello con cui tenevo il bicchiere colmo, il cui contenuto mi finì addosso. Cazzo se ho riso fino a graffiarmi la gola quella volta. Ma forse te l’ho raccontato. No, come potevi saperlo se già allora non ci parlavamo più.

La mattina dopo mi svegliai con il mal di testa e le qualifiche da correre di lì a poco. E quelle parole che non si toglievano dalla testa: troppo stupido per vincere il mondiale. Sai com’è la pista di Montecarlo, fai un errore minimo, fosse anche di un millimetro e ti trovi con mezza macchina distrutta.  Mi qualificai ultimo, questo te lo ricordi vero? Non ricordo cosa cazzo disse alla stampa la portavoce o cosa dovevo dire io, non mi presentai neppure ai giornalisti. Avevo una forte emicrania, regalino della sera precedente. Ma il giorno dopo li avrei smentiti tutti, me lo sentivo nelle viscere che sarebbe successo qualcosa.

La mattina della gara mi svegliai con una grande sete di rimonta. Impossibile in quel tracciato, ma mai dire mai. L’altro partiva primo, se avesse vinto la gara avrebbe guadagnato un mucchio di punti importanti per il campionato. Immagino che tu ricordi cosa accadde, no? Venne a piovere. Venne davvero a piovere, ed era proprio quello di cui aveva bisogno il pilota della Ferrari che partiva ultimo a Monaco. Quello, e di una serie di incidenti e safety car in sequenza. Ma non lo potevo dire ad alta voce, davanti a qualcuno che avrebbe invocato il politicamente scorretto. Sarei finito su tutte le Instagram Stories del paddock.

Una cosa posso confessartela, però. Non l’ho mai detto a nessuno. Quella mattina, prima della gara, sono andato su Youtube e ho inserito queste parole, queste qui proprio come te le dico: danza della pioggia.

Duravano tutti troppo tempo, ne ho aperto subito uno da venti secondi, che tempo da perdere non ne avevo. Ho visto un paio di movimenti con le gambe, con le braccia, ho buttato giù un goccio per fare benzina e via con la danza. Ti sento che sei lì a ridere, guarda, ma io giuro che l’ho fatto. E quel pomeriggio – quanto tempo dopo? Almeno quattro, cinque ore più tardi – venne a fare un acquazzone che t’entrava la pioggia nella tuta. Porca puttana se ho riso a crepapelle fino a rompermi i timpani da solo nel casco, quella volta. Ricordo ancora l’esatto momento in cui cadde la prima goccia d’acqua. Successe dopo una ventina di giri, io ero già dodicesimo, roba che avevo lasciato strisciate sui muri a furia di sorpassi.

L’ingegnere di pista, quello scemo che è venuto al posto tuo, mi chiama in cuffia dopo un paio di giri dopo la pioggia. Mi dice: devi rientrare ai box per cambiare le gomme d’asciutto, mettiamo quelle da bagnato e siamo sicuri di recuperare un po’ di terreno sugli avversari. Lì mi è partito il flashback. Giuro, come nei film. Non mi trovavo più a Montecarlo, ma a cono a casa, davanti al televisore. Ho sette anni. Mio padre guarda le videocassette di un certo Ayrton Senna, non so se lo hai mai sentito nominare. Sto scherzando, chi è che non sa che è il Dio di noi comuni mortali. Mio padre sta guardando quella cassetta per la boh, trentesima volta. Ayrton che con la sua macchina costruita da quattro scappati di casa sotto la pioggia in quel di Monaco se li mangia tutti.

Era il Gran Premio dell’ottantaquattro e all’epoca le macchine da corsa erano vere e proprie bare su quattro ruote. E quel senza testa di un Ayrton guidava come un condannato a morte sotto una pioggia mandata dal buon Satana in persona. E correva, correva, correva. Col suo catorcio li superava tutti, guidava come se a terra ci fosse asfalto asciutto appena steso. Campioni del mondo, campioncini, piloti che nessuno ricorda: quella giornata avrebbe sorpassato anche il dio della velocità. Ero incantato nella visione, e mio padre pure. A distanza di anni, stavamo assistendo a un evento che non era ancora trovato una spiegazione logica.

Poi mi è passato, il flashback. Ci sto guidando io a Monaco, ci sono io sotto l’acqua in una macchina che ha una tecnologia che manco il computer di quelli andati sulla luna la prima volta. Io non entro ai box, vado dritto e continuo la gara. L’ingegnere in cuffia si innervosisce, mi dà del matto. Ma cosa cazzo fai, ma dove vai che là fuori è una piscina. Fanculo, gli dico io. Inizia a prendere i bicchieri, lo champagne lo porto io dal podio, gli dico ancora. Immagino tu fossi incollato al televisore come ogni domenica, in quel momento. Bene, te lo ricordi come ho guidato quel giro, vero? Se ci sono stati dei minuti perfetti in tutta la mia vita, penso siano stati proprio quei due. La macchina era una nave pirata, ma a me non fregava proprio niente. Spingevo come un matto, freno al limite, accompagnavo dolcemente il volante in curva mentre toccavo con dolcezza l’acceleratore. A un certo punto gli insulti in cuffia si trasformano nei secondi che stavo recuperando su quelli davanti. Mi immaginavo già sul podio di Montecarlo. Con la famiglia reale a congratularsi, con le paddock girl, i loro sorrisi sorpresi e i loro bacetti che avrei avuto anche al mega party la sera. Lì avrei raccontato a chiunque della magia di partire ultimo e vincere il Gran Premio più glamour dell’anno. Da sobrio.

E guarda, io me lo voglio ricordare così quel Gran Premio, davvero. Però il laureato dalla cuffia mi fa: la gomma è finita, meglio rientrare adesso. Grazie mille, genio, non sono mica io che la sto guidando la macchina. Siamo quarti, mi fa, hai accumulato un vantaggio di trenta secondi sul quinto, rientra subito che è un miracolo. Renditi conto, amico io, delle stronzate che sparava quell’uomo. Quarto non è mica sul podio, faccio io. E lui, con quella vocina impaurita: ma cosa cazzo significa? Box subito. Ti giuro, lo dice con la stessa voce di quel crucco di Rosberg, mi è ripartito nelle orecchie il coretto sei troppo stupido per vincere il mondiale. E quindi secondo te io che faccio?

Che cazzo te lo chiedo a fare, poi, che tu già lo sai cos’ho fatto. È roba vecchia, questa. Per te, per il mondo, per me. Comunque, decido di rientrare ai box. Forse gestendo le gomme avrei guadagnato altri secondi, ma col cazzo che sarei riuscito a fare le stesse cose di un dio. Non sono ancora un dio io, sicuro che mi stampo in un muro, con le gomme finite.

Il pit stop è perfetto, la pit-lane scorre via sulle mie le gomme da bagnato ed è allora che l’ingegnere in cuffia mi fa: sei terzo, Vettel è andato a muro. Tu questo non lo puoi sapere, ma io ti giuro che in quel momento ho urlato come un matto nel casco una roba tipo: che crucco di merda, sono tutti stupidi i crucchi. E giù a ridere. A momenti dimenticavo pure di togliere il limitatore.

Sai com’è l’uscita dai box a Monaco, no? È strana. Esco scodando tanto, ma torno in pista senza problemi mentre la pioggia picchia forte sul casco. Io mi vedo già sul podio a festeggiare e a scolarmi tutto lo champagne di Montecarlo. Due curve dopo mi parla ancora lui in cuffia:

– Oh, ma la linea bianca? L’hai vista o no?

– Quale cazzo di linea bianca? Quella dei box?

– Eh, siamo sotto investigazione. L’hai superata con l’anteriore e la posteriore sinistra mentre uscivi.

– Ma che cazzo stai dicendo? Che significa investigazione? Io non ho superato un bel cazzo di niente.

– Ci sono le immagini, il team principal sta parlando con i commissari, sono minimo cinque secondi di…

E poi lo sai, che è successo. Mi sono stampato nel muro, due curve dopo l’uscita dal box, mentre mi stava dicendo della penalità. Quella cazzo di linea bianca m’ha bacato il cervello. Ero già sul podio. Ho viste le riprese, poi, ma solo quelle dal pit stop fino alla curva del casinò dove ho fatto l’incidente, non ho voluto guardare altro. Sarebbero stati al massimo cinque secondi di penalità e avrei ottenuto comunque il terzo posto. Invece, il mio cervello si era già schiantato.

Sono fuggito dal paddock senza sapere cosa avrei potuto fare. Mi hanno ritrovato solo la mattina dopo. Mi affogai di alcool, cambiando i bar ogni volta che qualcuno mi riconosceva. Andai nelle bettole peggiori – sì, esistono anche a Montecarlo – non potevo mica andare a bere alla Rascasse con tutta la gente che conosco lì. In una notte ho gettato in corpo tutto quello che potevo bere, credo anche l’acqua del porto. Non te lo so dire. So però che verso l’alba ero lì a guardare gli yacht con qualcuno – davvero non so chi. Poi mi hanno trovato, da solo, proprio in quel punto, seduto con la testa fra le mani.

Sai che ora sono tornato a correre? Finalmente ce l’ho fatta. Ma a smettere di bere, quello mai. Non riuscirei. Che bella sensazione, spingere l’acceleratore. Guarda qui come li sorpasso tutti. Non mi servono le piste di Formula 1 per correre, ne ho una dietro casa, è a tre corsie, poi si restringe a due. Solo che ci sono troppi coglioni lenti sopra. Ecco una curva. Lo sai, vero, che è nelle curve che si vede chi è un campione e chi invece è solo un pilota? Tutti sanno andare forte sul dritto, ma quelli leggendari li riconosci dal modo in cui vanno veloci in curva. E guardali qui, questi che si scansano, che si buttano tutti a destra. Sembrano formichine. Patetici, con le loro utilitarie del cazzo. Forse sto diventando un dio, dopotutto. Ma non basta ancora. Sesta, sesta, sesta. Quante vibrazioni, ma reggono ‘ste gomme? E che cazzo è quel segnale di lavori in corso? Dove cazzo vado ora?


Mario Altrui è una persona che ha da poco compiuto trent’anni e sta facendo i conti con un numero che a volte è un traguardo e a volte un punto di partenza. Lui deve ancora capirlo.

Vive a Dublino ma è nato e cresciuto a Napoli. Lavora come copywriter, e grazie a questo fatto può dire di scrivere da quando era bambino. Per la maggior parte del tempo, però, non ha mai scritto quello che voleva davvero: alcuni dei suoi racconti sono nati tra un copy, una call to action e una call del capo.